Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo: "Al pari delle associazioni mafiose, l'Is agisce e si finanzia commettendo reati: dal contrabbando di petrolio al traffico di droga e armi. Impossibile escludere il rischio di nuovi attacchi"  

Degli attentati che il 22 marzo scorso hanno sconvolto Bruxelles, per il momento, non se la sente di parlare. Perché sono fatti troppo recenti ed è molto difficile esprimere giudizi equilibrati in merito. Per questo Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, sceglie la linea della prudenza ed evita di fare polemica su eventuali malfunzionamenti nella sicurezza belga. Per rispettare il suo delicato ruolo istituzionale, per proteggere informazioni riservate. O forse per non alimentare allarmismi esagerati né illusioni rassicuranti. Ma ha le idee chiare su come si debba affrontare la sfida del terrorismo islamico: «Con il codice alla mano, utilizzando i mezzi che il diritto e la procedura penale ci offrono e restando sempre entro i limiti stabiliti dallo Stato di diritto».

Procuratore, è evidente che a livello europeo ci sia ancora molto da fare per contrastare efficacemente il terrorismo islamico. Eppure proposte da cui partire sono e arrivano anche dall’Italia.
“È stata più volte ribadita la necessità di creare un sistema d’intelligence europeo e io credo che sia possibile farlo in tempi abbastanza brevi. Del resto, la circolazione dei dati avviene già e da tempo ormai esiste Europol, l’agenzia che si occupa di coordinare i flussi informativi tra le polizie dei vari Paesi. Il punto è che questa agenzia andrebbe rafforzata, visto che ora può disporre soltanto dei dati che confluiscono su base volontaria. Se è vero che l’Italia ha una grande tradizione di coordinamento investigativo e giudiziario, bisogna ricordare che altri Stati non hanno avuto la stessa esperienza. Al contrario, è assolutamente necessario che la condivisione delle informazioni diventi una prassi consolidata”.

L’istituzione di una Procura europea è un altro obiettivo che si cerca di raggiungere da tempo. A che punto è il progetto?
“Noi sosteniamo fortemente questo progetto, ma per realizzarlo ci vorrà più tempo e si incontreranno maggiori ostacoli. L’idea, rilanciata anche dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, è quella di creare a livello europeo una figura plasmata sul modello del pubblico ministero italiano. Si tratta, cioè, di istituire un organo inquirente autonomo e indipendente rispetto alla politica, che abbia poteri d’indagine e che possa esercitare direttamente l’azione penale. Ma gli ordinamenti giuridici dei vari Stati membri sono diversi tra loro e la figura del pm in molti Paesi ha meno poteri rispetto a quanti ne ha da noi. Non sarà facile armonizzare le differenti discipline. Bisogna ricordare, infatti, che il timore di cedere ampi spazi di sovranità all’Unione europea ha frenato, e tuttora frena, il percorso di creazione di questa istituzione. Qualcuno vorrebbe creare un mero simulacro di procuratore europeo, privo in concreto di poteri e competenze, ma non avrebbe alcun senso”.

Sul fronte interno, invece, la nostra esperienza e la nostra legislazione antiterrorismo si stanno rivelando all’altezza della sfida?
“In Italia abbiamo a disposizione dei validi strumenti legislativi. Abbiamo affrontato con successo sia il terrorismo interno durante gli anni di piombo sia quello internazionale tra gli anni Novanta e l’inizio del Duemila. Allo stesso modo, stiamo facendo un buon lavoro oggi contro il terrorismo jihadista. In passato le varie Procure si sono coordinate in maniera autonoma e spontanea, ma ora la funzione di coordinare a livello centralizzato l’attività d’indagine spetta alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che si pone come struttura di servizio per gli altri uffici. E il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, organo di cui fanno parte rappresentati delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, è riunito in via permanente per consentire la costante condivisione di informazioni. Il raccordo tra magistratura, forze di polizia e intelligence è la soluzione obbligata per evitare sovrapposizioni o disorganizzazione. Naturalmente non si può escludere del tutto il rischio che si verifichino attacchi terroristici, perché l’imprevedibilità di queste azioni è un fattore da tenere sempre in conto, soprattutto qualora in azione ci siano i cosiddetti lupi solitari. D’altra parte, è importante che gli strumenti legislativi siano aggiornati costantemente, visto che il fenomeno criminale da contrastare è in continua evoluzione. Sarebbe utile, ad esempio, rendere più rigorosa la disciplina prevista per alcuni reati-spia, come il possesso di documenti falsi. Scoprire questi reati e condividere le informazioni al riguardo, peraltro, è fondamentale: sono sintomi, spie appunto, di una potenziale presenza terroristica e solo disponendo di una visione complessiva dei singoli indizi si può efficacemente monitorare la situazione”.

Qualche tempo fa lei ha definito lo Stato islamico come uno Stato-mafia. Che cosa significa?
“Innanzitutto, significa che l’Is è un’organizzazione criminale transnazionale e, al pari delle associazioni mafiose, agisce e si finanzia commettendo reati: dal contrabbando di petrolio o di reperti archeologici fino al traffico di droga o di armi. La domanda di servizi criminali, però, viene dall’esterno e proprio queste relazioni rappresentano il punto di forza dell’organizzazione. Occorre, quindi, recidere i legami con tutti coloro che usufruiscono di tali servizi, compresi quegli Stati che con i terroristi hanno fatto affari e compresi quegli istituti bancari che hanno permesso loro di riciclare il denaro. E occorrerebbe stabilire che anche le società di money transfer debbano iscriversi all’albo degli operatori finanziari e debbano avere sede legale in Italia, in modo che si possano controllare le operazioni effettuate. Il contrasto militare da solo non basta, è indispensabile individuare e prosciugare le fonti di finanziamento”.

Contro il terrorismo servono repressione e prevenzione. Ma fatti come quelli di Parigi o di Bruxelles provocano allarme sociale e la tentazione per i governi nazionali di controllare l’emergenza con provvedimenti dal sapore autoritario è forte. C’è il rischio che le esigenze di difesa della collettività prevalgano sulla tutela dei diritti individuali?
“Io credo che in Italia questo pericolo non esista. Siamo riusciti a mantenere l’equilibrio tra sicurezza e libertà anche nei periodi difficili della lotta al terrorismo politico e nel contrasto alla mafia. Non ci saranno involuzioni nemmeno adesso. Anche perché non si deve mai rispondere a un crimine con un altro crimine. Le garanzie individuali vanno sempre mantenute: il loro rispetto da parte delle istituzioni statali non è un segno di debolezza, ma di grande forza”.

Mentre l’attenzione è concentrata nella lotta al terrorismo internazionale, c’è il rischio che le mafie, come hanno fatto negli anni Settanta e Ottanta in Italia, ne approfittino per rafforzare il loro potere?
“È vero che all’epoca le organizzazioni mafiose sfruttarono il silenzio calato sulle loro attività per proliferare, mentre ogni sforzo dello Stato era polarizzato sull’emergenza terroristica. Ma oggi, e lo dico in veste di procuratore nazionale antimafia, l’attenzione investigativa e giudiziaria è massima e costante anche sulla mafia”.

Per quanto riguarda la legislazione antimafia, quali sono gli strumenti che ancora mancano e che potrebbero rendere più efficace l’azione di magistrati e forze dell’ordine?
“Ho già detto in passato che sarebbe necessario estendere alla corruzione l’applicazione degli strumenti legislativi che il nostro ordinamento consente di utilizzare contro la mafia, a partire dalle misure di prevenzione come la confisca. La corruzione, infatti, è la nuova arma usata dalle organizzazioni mafiose per infiltrarsi nelle istituzioni e nell’economia legale e per far crescere i propri affari. Del resto, è più conveniente cercare consenso e stipulare accordi corruttivi piuttosto che ricorrere all’intimidazione o alla violenza. E sarebbe utile introdurre una nuova fattispecie di reato, che vada ad affiancarsi allo scambio elettorale politico-mafioso e al concorso esterno in associazione mafiosa. Queste due fattispecie hanno funzionato bene, ma servirebbe una norma più specifica per punire il patto imprenditoriale-mafioso. Per punire, cioè, tutti quei comportamenti di connivenza da parte degli imprenditori che cercano o accettano di fare affari con i boss”.

Nelle scorse settimane, dalle pagine dell’Espresso, il pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli Catello Maresca ha invitato a non abbassare la guardia sulla camorra casalese, apparentemente silente. Condivide questo allarme?
“Certo. Mentre a Napoli la camorra si è trasformata in un fenomeno di gangsterismo urbano e i giovani boss, incapaci di gestire i traffici criminali, sparano all’impazzata, nel casertano i clan stanno in silenzio. Ma il fatto che i casalesi siano stati sconfitti sul versante militare e parzialmente anche su quello patrimoniale non deve far calare l’attenzione. Se non si eliminano le premesse sociali, culturali e politiche che favoriscono il proliferare della camorra, ogni sforzo sarà sempre inutile. In quelle aree, tra Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d’Aversa, spesso mancano ancora le infrastrutture di base e non ci sono servizi pubblici efficienti. Il degrado urbano genera disagio sociale ed è in quel contesto che la criminalità organizzata trova spazio per creare il suo “welfare” parallelo e per guadagnare così consensi”.