“The Donald” non vincerà. Ma lo si deve temere perché incarna una crisi delle democrazie simile  a quella che favorì la presa del potere di Mussolini

Donald Trump
Non dobbiamo cadere preda della paura sbagliata: di Donald Trump non preoccupa il fatto che possa conquistare l’investitura repubblicana, perché sarebbe molto improbabile per lui riuscire a insediarsi alla Casa Bianca. Negli Stati Uniti gli elettori “indipendenti” - quelli decisivi di centro - non voteranno per lui, perché sono tutto salvo che estremisti. La frangia moderata dei repubblicani, molto più ampia di quanto si creda, gli preferisce quell’ Hillary Clinton che la destra americana però detesta. Molti astensionisti, infine, usciranno dalla loro indifferenza per non fargli prendere le redini del Paese.

“The Donald”suscita un rigetto così maggioritario che proprio per non regalare questa elezione presidenziale ai democratici l’apparato repubblicano sta facendo tutto ciò che è possibile per sbarrargli la strada. E quindi, perché temerlo?

La risposta è che quest’uomo non è solo un incidente di percorso della democrazia, o un miliardario pronto a spendere per compiacere il suo ego spropositato e accedere allo status di star internazionale. È tutto questo, certo, ma il vero motivo per il quale lo si deve temere è che egli è diventato l’incarnazione di una crisi della rappresentanza in Occidente, una crisi comune alle democrazie europee e americana, e le cui due cause di fondo sono durature.

La prima è che i grandi partiti tradizionali - di sinistra e di destra - non sono più in grado di promettere nulla agli elettori che vedono ristagnare e perfino contrarsi i salari, le tutele sociali fare passi indietro, il numero dei posti di lavoro diminuire, la precarietà avanzare. Non è un brutto momento destinato a passare: è lo stravolgimento definitivo dei rapporti di forza tra aziende e salariati, perché i tempi del dopoguerra nei quali ricostruzione e piena occupazione permettevano agli operai e ai dipendenti di imporre le loro condizioni sono finiti.

In quei tempi, gli scioperi erano frequenti e vi si partecipava in massa perché un’astensione dal lavoro era sufficiente a piegare i consigli di amministrazione che avevano difficoltà a reperire dipendenti. I salari aumentavano, le tutele sociali pure. Quel movimento sembrava irreversibile anche perché la paura del comunismo spronava a un’effettiva condivisione dei benefici. Ma, dalla metà degli anni Settanta in poi, la fine della ricostruzione e l’aumento del prezzo delle materie prime hanno inferto la prima battuta d’arresto ai “Trent’anni Gloriosi” del dopoguerra. Da allora è ricomparsa la disoccupazione, che ha riportato in vantaggio il capitalismo. Da allora gli scioperi non sono più stati sempre vincenti, e dopo il 1989 sono diventati tanto rari quanto inutili perché nulla ha più obbligato il capitale a negoziare compromessi.

Non solo non c’è più una minaccia comunista, ma la conversione all’economia di mercato di Paesi prima chiusi e dirigisti ha permesso al capitale di andare a cercare ovunque i migliori tassi di rendimento, di delocalizzare la produzione, di spingere al rialzo la disoccupazione in Occidente. E di ottenere un ribaltamento del rapporto di forze.

Ai salariati non resta che scegliere tra il persistere di elevati tassi di disoccupazione e l’accettazione di un’ininterrotta erosione dei diritti acquisiti. Questa scelta si impone anche ai partiti di governo che hanno tutti optato per quella che con eufemismo si chiama “flessibilità”.

Sulle due sponde dell’Atlantico si è venuta a creare un’enorme angoscia sociale, terreno fertile per Trump e le estreme destre europee. Tra Donald e Marine Le Pen o i loro analoghi le similitudini sono sconcertanti. Tutti propongono di tornare al protezionismo. Tutti vedono nei Paesi emergenti il nemico. Tutti sono ostili verso l’immigrazione. Tutti, in sintesi, provano nostalgia per i tempi in cui l’Occidente era formato da Stati forti, che non soffrivano la concorrenza di Paesi dalle tutele sociali inesistenti.

Questa nostalgia oggi fa ancora più presa sugli elettorati perché all’angoscia sociale si è aggiunta l’angoscia per la sicurezza, una volta diventato palese che nemmeno gli Usa sono onnipotenti, che New York, Parigi o Bruxelles non possono più considerarsi al riparo dai problemi del Medio Oriente, e che insieme ai Trent’anni Gloriosi sono giunti al termine anche cinque secoli di supremazia occidentale.

Questa è la seconda motivazione che spiega il successo di Donald Trump e delle estreme-destre europee, portatori di un fascismo del XXI secolo: quel mix di nazionalismo, di desiderio di poteri forti, di difesa dei più deboli col quale fece il suo esordio il fascismo italiano. Per il fascismo, alimentato dal terrore islamista, in Occidente si prospetta un roseo futuro.

Il fascino che Vladimir Putin esercita su Donald Trump e Marine Le Pen ne è una conferma. Trump non ha più probabilità di diventare presidente nel 2016 di quante ne avrà Marine Le Pen nel 2017. Ma il rintocco della campanella d’allarme è ogni giorno più forte.

traduzione di Anna Bissanti