Ai miei tempi, in classe si parlava dei meccanismi della Repubblica. Dei diritti e dei doveri dei cittadini. Anche quello era un modo di fare politica. Oggi all’insegnante si chiede di non sbilanciarsi sull’attualità. Ma i giovani vanno educati alla partecipazione

Quando andavo alla scuola elementare, la maestra ci faceva cantare Bella ciao prima che iniziassero le lezioni. Era un rito laico quotidiano, un modo per dirsi buongiorno e per ricordare da dove proveniva la scuola pubblica nella neonata Repubblica italiana. Non c’entrava la politica, anche se era una scelta politica.

La bandiera dell’antifascismo era come una sola larga coperta che abbracciava tutto l’arco costituzionale e non solo un partito. Alla scuola media la professoressa di Storia faceva accurate lezioni sui meccanismi della Repubblica, sugli organi e i poteri dello Stato, sui diritti e i doveri dei cittadini. Era politica anche quella, evidentemente, i ragazzini dovevano sapere che cos’era stata la dittatura e che cos’è la democrazia. Sapere distinguere, fare le differenze: anche questo è politica. La scuola era la capitale dell’antifascismo, piantonava la Costituzione.

Oggi da insegnante mi sembra che tutto questo dalla scuola sia quasi sparito. Lo studio della Storia e dell’Educazione civica ha un ruolo sempre più marginale nel monte ore e l’insegnante che porta l’attualità in classe viene guardato talvolta con sospetto.

Si pretende che il docente abbia un ruolo neutrale, che non abbia o almeno non manifesti un’idea sul presente sul passato e sul futuro. E se il numero dei votanti cala di tornata in tornata elettorale il motivo è anche da ricercare in questo “congelamento” della scuola rispetto alle tematiche dell’attualità, della contemporaneità, della politica in generale.

Le nuove generazioni vanno educate alla partecipazione, certamente non suggerendo loro per chi votare (come se poi loro facessero quello che diciamo noi!) ma spiegando che in quel congegno fragile e imperfetto che è la democrazia risiede l’unico antidoto al pensiero unico, alla censura, alla violenza. E che non bisogna mai aver paura di sostenere le proprie idee con le armi del dialogo e del confronto.

Una dirigente scolastica che commenta un gravissimo episodio di violenza e che citando Gramsci condanna il fascismo e l’indifferenza di quelli che non vi si oppongono con fermezza, è una persona che sta facendo “politica” nel senso più nobile del termine. Una preside che autorizza gli alunni a tenere un’assemblea di istituto per discutere di droghe leggere e legalizzazione e si vede arrivare la polizia a scuola a interrompere il dibattito, come è successo recentemente a Piazza Armerina, sta facendo “politica”, cioè sta insegnando a ragionare, a discutere e a confrontarsi. Un professore che il giorno dopo la tragedia di Cutro stigmatizza le parole del ministro dell’Interno che colpevolizza le vittime invece che spronare alla solidarietà sta facendo politica, perché il principio solidarista è uno dei principi cardini della Costituzione antifascista.

Sarà forse per questo che, il giorno dopo l’aggressione neofascista di Firenze, ho sentito il bisogno di condividere in classe con i miei alunni le parole della preside Savino e mi è tornata in mente la mia maestra di tanti anni fa che, nel suo completo beige e camicetta bianca, si alzava in piedi e insieme a noi intonava le parole di un vecchio canto che comincia così: «Una mattina, mi son svegliata…».