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Mondo
aprile, 2016

Jet set, gaffe e belle donne: chi è Donald Trump, l'uomo che fa paura all'America

Donald Trump
Donald Trump

Dall’infanzia nel Queens alla conquista di Manhattan. I fallimenti e la prodigiosa risalita. E ora la corsa alla ?Casa Bianca. Ecco chi è l’uomo che spaventa l’America (e non solo)

Donald Trump
Queens è un quartiere di immigrati, strade, case e negozi di chi è arrivato a New York City da ogni angolo del pianeta inseguendo il sogno americano, ma se per caso (o per scelta) ti imbatti nei Jamaica Estates il mondo improvvisamente diventa alla rovescia. Qui, a pochi passi dalla St. John’s University, nel grande compound che accoglie - tra spazi verdi e lussuosi appartamenti - gente piuttosto facoltosa, Donald John Trump è nato e cresciuto.

Sulla Midland Parkway, dove la grande magione costruita da papà Fred si staglia con le sue colonne bianche simil-greche e i classici mattoncini rosso cupo, qualche vicino (ormai anziano) lo ricorda con affetto, altri non risparmiano una stilettata (“era un bambino viziato, se la palla finiva nel loro giardino minacciava di chiamare la polizia”), tutti ne sono, a modo loro, affascinati.
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È qui, da Queens, che il candidato-miliardario, l’uomo dalla retorica spicciola (ma efficace) e dalle grandi provocazioni (costruite ad arte) ha mosso i primi passi per diventare quello che è oggi: lo spauracchio di un’America benpensante (democratica o repubblicana che sia), il terrore dell’establishment, l’idolo di milioni di bianchi arrabbiati - agricoltori senza mercato, classe operaia in sfacelo, giovani senza futuro e con pochi ideali cresciuti ad hamburger e tv - che lui ha saputo coinvolgere nell’odiato gioco della politica.
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Per capire (senza demonizzare) chi è “The Donald” bisogna partire da Midland Parkway, da una storia - pubblica e privata - dove soldi e successo, drammi familiari e dispute legali, investimenti e bancarotte, mogli e amanti, si intrecciano con gli anni del reaganismo, con il boom edilizio della New York anni Novanta, con i reality televisivi del nuovo secolo fino all’incredibile (quasi) nomination nella corsa alla Casa Bianca dopo il largo 60 per cento alle primarie di New York.

La sua carriera inizia con una rottura familiare. La ribellione all’amato fratello Freddy, erede designato della dinastia, che ha scelto di buttare soldi e talento per seguire la passione per il volo (era pilota professionista) e verrà travolto da quella per la bottiglia, morendo alcolizzato a soli 41 anni. Lo ha raccontato lo stesso Donald, parlando con un reporter del “New York Times” quattro mesi fa, quando nessuno avrebbe scommesso un cent su di lui.
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Fu così che Frederick senior, originario fondatore dell’impero edilizio, decise di puntare tutto sul quartogenito («mio padre aveva una grande fiducia in me, anche questo ha messo troppa pressione a Freddy»). Fin da bambino quel suo carattere decisionista e iperattivo aveva colpito i genitori, tanto da mandarlo, quando aveva 13 anni, alla New York Military Academy nella convinzione, rivelatasi giusta, che la ferrea disciplina della scuola avrebbe incanalato in modo positivo la sua energia.

Se il padre era diventato ricco grazie ai palazzi costruiti a Queens, Staten Island e Brooklyn per la nuova classe borghese uscita dal boom economico del dopoguerra, il giovane Donald punta decisamente più in alto. Suo obiettivo è conquistare Manhattan, “l’isola dei ricchi”, e i primi anni Settanta vedono il 25enne rampollo (che nel 1971 assume il controllo dell’azienda familiare e si trasferisce a Manhattan) inanellare i primi successi con nuovi palazzi dalle architetture audaci e una famelica vita sociale (e notturna) che lo impone all’attenzione dei gossip. Sono gli anni in cui New York City si avvia alla bancarotta, anni duri e difficili, acque pericolose dove gli squali (di ogni genere) si trovano a loro agio. E Trump impara a nuotare benissimo.
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“The Donald” finisce sotto i riflettori, tra reporter (economici e di costume) ed analisti finanziari divisi tra scettici ed entusiasti che iniziano a raccontarne le gesta. Se nel business si segnala per l’acquisto e la trasformazione di un hotel in decadenza come il Commodore (situato però in un punto strategico vicino a Grand Central Station) nel Grand Hyatt, il colpo da maestro lo mette a segno nel 1977, quando, tra fans crescenti e sorrisetti ironici, sposa Ivana Zelnickova, esuberante modella cecoslovacca che ha un passato da sciatrice nella squadra olimpica del suo Paese natale. Sarà lei a dargli i primi tre figli, Donald Jr., Erik e la bella Ivanka (oggi 35enne) parlando della quale continua a ripetere per la gioia di stampa, tv e tifosi vari, «se non fosse mia figlia la vorrei come fidanzata».
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Le donne sono un capitolo decisivo nella storia e nella carriera di Donald Trump. Ivana, aldilà delle apparenze un po’ grossolane, ha un ruolo decisivo nell’ascesa degli anni Ottanta quando lo convince - venendo premiata con la carica di vice-presidente della Trump Organization - a un complicato leasing per impadronirsi del palazzo su Fifth Avenue accanto al celebre Tiffany (un affare da 200 milioni di dollari che diventerà la famosa Trump Tower). Sono gli anni in cui la popolarità dell’uomo dal ciuffo color carota raggiunge l’apice, quando GQ - il mensile di “stile, moda e cultura” per uomini - gli dedica la copertina. Qualche critico raffinato scrive che solo un uomo del real estate può chiamare la Sixth Avenue “Avenue of the Americas” (il nome ufficiale), quelli con la puzza sotto il naso lo bollano come “palazzinaro”, ma a New York City chi fa i miliardi con l’edilizia (che insieme a Wall Street è la locomotiva dell’economia) ci mette poco a diventare una leggenda.

Prima (e dopo) Ivana ha - o gli vengono attribuiti - vari flirt, famosi quelli con Carla Bruni («voleva che lasciassi la mia seconda moglie, ma lei pensava ancora a Mike Jagger») o la supermodella Kara Young, ma è la 21enne Marla Maples che nel 1985 fa breccia nel cuore di Donald, alle prese (tra litigi e tradimenti) con una relazione di giorno in giorno più complessa con Ivana che sfocerà nel 1991 in un divorzio milionario che fa felici (e ricchi) soprattutto gli avvocati. È solo a quel punto (siamo nel 1993) che potrà convolare a nozze con Marla, da cui nel frattempo ha già avuto una figlia, Tiffany. Non sarà un matrimonio duraturo («che dire, è durato tre anni e mezzo, avevamo uno stile di vita incompatibile, non c’era alcuna ragione per stare ancora insieme», ha scritto Trump in “The Art of Comeback”, uno dei suoi vari libri-manuali a metà tra memorie e insegnamenti) e a farne le spese sarà la piccola Tiffany (oggi 23 anni) che il padre omette sempre di citare quando nei comizi ringrazia commosso gli altri quattro figli.

Sarà forse perché gli anni con Marla e Tiffany (primi anni Novanta) gli ricordano il periodo più difficile della sua vita. Quando, dopo essersi vantato di essere il “Number One” del mondo degli affari Usa, si ritrovò a un passo della totale bancarotta con quasi un miliardo di dollari di debiti, trovandosi costretto a chiedere il Chapter 11, l’amministrazione controllata, per la sua Trump Organization. Tutta colpa di Atlantic City e del mega-casinò Taj Mahal (una copia del mausoleo indiano in stile Las Vegas) finanziato con “junk bonds” al 14 per cento e travolto dalla crisi seguita al crollo di Wall Street dell’ottobre 1987. Fu allora che l’arrogante Donald, l’uomo che si beava di «vincere sempre», fu costretto a un bagno di umiltà, a scendere a patti con la Citibank e altri suoi grandi creditori e a vendere la sua compagnia aerea (Trump Shuttle), metà del Taj Mahal e soprattutto il giocattolo cui teneva di più: lo yacht da 90 metri - ribattezzato Trump Princess - che aveva comprato da poco dal Sultano del Brunei.

«Non mi piace quella parola che inizia per B, come bancarotta», ripete quasi come un mantra quando gli chiedono dei fallimenti passati. Ai suoi critici (dapprima ironici e sfottenti, adesso puntuti e aggressivi) preferisce rispondere ricordando gli anni della rinascita imprenditoriale («sono veramente ricco e ne sono orgoglioso») che coincidono con il boom economico del secondo mandato di Bill Clinton. Della (allora) coppia presidenziale Trump era del resto un (quasi) amico, a testimoniarlo ci sono le foto dell’epoca, il passato democratico («un peccato giovanile») del candidato-miliardario e qualche finanziamento più o meno occulto. Hillary&Bill furono invitati e presenti al matrimonio tra lui e la terza moglie Melania, le rispettive figlie Chelsea e Ivanka era buone amiche. Anni che lui - al contrario di Hillary - non rinnega («eravamo amici, mi piaceva lei e mi piaceva anche suo marito») anche se adesso attacca ferocemente (la definisce “nonna”) la ex First Lady che gli sbarra la strada verso la Casa Bianca. Non poco per uno abituato a raccontare la realtà come meglio gli aggrada, che sa raccontare bugie con una tale convinzione che molti alla fine credono sia la verità, che si autocertifica una ricchezza da 9 miliardi di dollari mentre la rivista Forbes gliene accredita meno della metà. Stessa cosa per il brand Trump: per Donald il suo nome ha un valore di 3,3 miliardi, per gli esperti del settore non vale più di 125 milioni.

Con l’ultima moglie sembra aver trovato finalmente la pace familiare. Melania Knavs, la modella slovena incontrata a un fashion-party di New York nel 1998 e sposata nel gennaio 2005 (oltre ai Clinton erano presenti Rudolph Giuliani, le star delle news tv Barbara Walters e Katie Couric, mentre Billy Joel cantava in onore degli sposi) potrebbe essere la prima First Lady che abbia posato nuda per la copertina di un giornale.  Lo fece (correva l’anno 2000) sempre per GQ, un modo originale di celebrare, con il consenso di Donald, la sua relazione con Trump.

Non si può invece dire che abbia trovato pace con l’universo femminile più in generale. Gli ultimi scontri con Megan Kelly, l’affascinante anchorwoman di FoxNews (canale decisamente pro-repubblicano) rea di avergli ricordato una frase sulle donne («sono come maiali grassi, cani, animali disgustosi») sono diventati virali sui social network e da allora The Donald si rifiuta di andare ai dibattiti tv moderati da lei. Le sue battute sessiste sono state imparate a memoria da avversari e femministe. «La correttezza politica è il cancro dell’America», ribatte sbuffando lui, che ne ha messo rapidamente in pratica una che risale ad una sua intervista con Esquire del 1991 («sapete, non ha molta importanza che cosa i media possono scrivere fintanto che avete con voi una giovane e splendida gnocca»). Ed eccolo infatti che ad ogni comizio e ad ogni possibile evento televisivo si presenta - sia all’inizio che alla fine - circondato dalle indubbiamente belle moglie e figlia.

Con la televisione ha dimostrato di saperci fare come nessun altro e del resto uno che ha rilanciato Miss Universo e si è reinventato a sessant’anni star di un reality (ha condotto il suo “The Apprentice” per undici anni di fila, ospiti d’onore i tre figli avuti da Ivana) chiudendo ogni puntata con uno degli slogan-tormentoni più ripetuti d’America (“You’re fired!”) non può certo farsi intimidire da un dibattito tv con Jeb Bush, Marco Rubio e Ted Cruz. I giornali non lo amano e lui ricambia, non dimenticandosi mai di attaccare (ogni scusa è buona) i giornalisti. Tanto sa che dai media ottiene una grande pubblicità tutta gratis (finora per un valore di due miliardi di dollari ha calcolato il New York Times) e il pubblico a cui si rivolge non è certo quello che legge i grandi quotidiani nazionali. Quando parla di quanto accade nel mondo (dall’Islam, all’amico Putin) usa semplici e facili slogan che ricordano gli azzeccati titoli del New York Post, il tabloid della Grande Mela. Sa bene che gli americani guardano la televisione o si informano sui social network, sa altrettanto bene come solleticare le grandi tre paure dell’America di oggi: sicurezza, terrorismo, lavoro.

Che sia un candidato atipico per la storia (e gli ideali) del Grand Old Party lo dimostra anche la playlist che usa nei comizi. Nessun conservatore mischierebbe “Tiny Dancer” di Elton John e qualche classico del musical (“Cats” e “The Phantom of the Opera”) con le maledette (per gli evangelici) “Sympathy for the Devil” e “Brown Sugar” dei Rolling Stones. Per Hillary non sarà una passeggiata.

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