Al tribunale di Roma si apre il primo di una serie di procedimenti destinati a fare rumore. Saqer Alraisi si dovrà difendere dall’accusa di aver illegittimamente licenziato alcuni dipendenti dell’ambasciata. Sette dei quali hanno fatto ricorso
Si è aperto negli scorsi giorni, presso la sezione lavoro del tribunale di Roma, il primo di una serie di procedimenti destinati a fare rumore.
Saqer Alraisi, ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti in Italia, si dovrà difendere dall’accusa di aver illegittimamente licenziato alcuni dipendenti dell’ambasciata. Sette dei quali hanno fatto ricorso, tirando in ballo una serie di rivendicazioni, in parte economiche - quali Tfr non corrisposti, stipendi e contributi non pagati nei termini previsti, anche negli anni precedenti l’arrivo di Alraisi nella capitale - in parte di natura diversa. Alcuni di loro hanno infatti chiesto il riconoscimento dei danni biologici conseguenti a vessazioni che avrebbero subito negli anni trascorsi alle dipendenze di Alraisi.
I ricorsi hanno però una valenza che travalica lo specifico oggetto della contesa giudiziaria. Perché fanno emerge talune modalità con cui l'ambasciata italiana del sesto paese più ricco del mondo ha gestito negli ultimi venti anni almeno una parte dei rapporti di lavoro con le proprie maestranze.
Modalità che, come dimostra una serie di documenti anche antecedenti l'attuale contenzioso e raccolti da L'Espresso, ruotano attorno alla sottoscrizione di periodici atti di licenziamento volontario e di contestuale riassunzione. Si legge, in uno dei ricorsi, che “l’Ambasciata induceva [...] a siglare una serie di verbali di conciliazione, periodici, presso la Direzione Provinciale del lavoro di Roma e il ricorrente, al fine di mantenere il posto di lavoro, era costretto a siglarli”.
E' ciò che è avvenuto, come ha potuto appurare L'Espresso, anche nelle scorse settimane, negli uffici della direzione territoriale del lavoro di Roma. Dove una serie di dipendenti dell'ambasciata emiratina si sono recati, in più tornate, per sottoscrivere altrettanti verbali di conciliazione con cui porre fine al rapporto di lavoro. In calce agli atti, figura la firma di
Bruno Bertucci, storico legale di fiducia dell'ambasciata degli Emirati. Lo stesso che, già nell'aprile del 2005, segnalava alla rappresentanza emiratina come “la prassi adottata dall'Ambasciata di chiudere i rapporti di lavoro […] e di iniziare un nuovo rapporto il giorno successivo non è conforme alla legge”.
L’interesse delle cause di lavoro, poi, va oltre gli aspetti giuslavoristici sottesi. Nei documenti finiti all'attenzione dei magistrati civili, sono infatti citati alcuni episodi che suscitano interrogativi sui comportamenti dell'ambasciatore. E che hanno indotto un gruppo di addetti dell'ambasciata a scrivere, nel febbraio di quest'anno, una lettera-denuncia ad Anwar Mohammed Gargash, ministro degli affari esteri degli Emirati Arabi Uniti. Nella missiva rimasta senza risposta e di cui L'Espresso ha preso visione, si fa pure riferimento al fatto che “il comportamento del capo missione non è sempre corretto nemmeno verso l'esterno […] l'ambasciatore non sembra voler rispettare le regole dello Stato italiano privilegiando invece atteggiamenti […] “al di sopra della legge””.
L'allusione è alla gestione delle pratiche di ingresso in Italia di due domestiche: filippina la prima e di origine nepalese la seconda. Per loro, in assenza di un contratto di lavoro, il nostro Ministero degli affari esteri nega, a settembre di due anni fa, i visti per motivi di lavoro fatti richiedere da Alraisi. Che successivamente ottiene dei visti turistici. Scaduti i quali, gli addetti interessati, invece che tornare negli Emirati Arabi, come impone la legge, continuano a lavorare in ambasciata al servizio di Alraisi. Privi, naturalmente, di contratto di lavoro.
Spicca poi il caso della seconda moglie di Alraisi, che, come messo in luce da uno dei ricorsi e rivelato anche da una fonte interna dell'ambasciata, il diplomatico emiratino è convinto di poter far arrivare in Italia grazie ad un visto permanente concesso alle consorti dei diplomatici. “L’Ambasciatore - si legge in uno dei ricorsi - ha preteso che chiedesse una carta di identità per la seconda moglie, con tale specificazione (di seconda moglie)”.
Il Ministero degli affari esteri italiano rigetta la domanda, visto che, in base alla Convenzione di Vienna (il trattato internazionale adottato nel 1969, che regola i rapporti tra 113 Stati, ndr) non è ammessa la bigamia. E il diplomatico emiratino che fa? Assume la signora Hamda Ahmed Ali Abbass Alblooshi - questo il nome della seconda moglie di Alraisi - presso l'ambasciata in qualità di impiegata tecnico-amministrativo. Ottenendo così per essa un visto per ragioni di lavoro.
Intanto l’ambasciata degli Emirati Arabi, oltre che per la fitta rete di rapporti d’affari con l’Italia, si è fatta notare in tempi recenti anche per l’acquisto, per circa 23 milioni, di Villa Durante: un immobile che fino ad alcune settimane fa era di proprietà dell'ente previdenziale dei periti industriale, sottoposto alla tutela della Sovrintendenza alle Belle Arti e dove verrà presto trasferita la sede diplomatica. Ciò richiederà adeguamenti strutturali, come accaduto per lo storico immobile dell'ambasciata a Lisbona, retta dal 2012 al 2014 da Alraisi.
Finito nell'occhio del ciclone proprio per i lavori di ristrutturazione della sede diplomatica portoghese: dopo mesi di polemiche, la costruzione di un paio di manufatti fu definitivamente dichiarata illegale dal Consiglio comunale di Lisbona e per esse venne comunicato dal ministero degli affari esteri del Portogallo l'ordine di demolizione.