La leadership di Renzi non è crollata ma è in crisi: il Pd senza radicamento né identità è fallito. Ma la sinistra dem può riportarlo sulla buona strada? Per Michele Prospero, no. Non funziona il ritorno all’antico
Se la leadership di Renzi ancora non è crollata, e può pensare di riorganizzare le sparute forze rimaste, è per il soccorso rosso di Milano. La ferita del rottamatore non è diventata letale solo grazie alla confluenza meneghina di radicalismo e Compagnia delle opere. E però, anche se il corpo del capo non ha abbandonato il teatro mondano, la sua ombra si trascina priva di ogni vigore.
Renzi può tentare di riprendere il controllo delle truppe disincantate circa le sue magnifiche virtù di condottiero e continuare a minacciare i subalterni, come se disponesse di un lanciafiamme reale. Ma si tratta di colpi simulati, ormai privi di energia effettiva. A chi bene interpreta il senso strategico del voto, non sfuggirà una considerazione. Si tratta di una caduta di sistema, che muta alla radice i gracili equilibri apparsi dopo il terremoto del 2013.
Il Pd senza identità e radicamento sociale è un esperimento finito, non ha la centralità sistemica che gli conferiva chi si cullava nella metafisica dell’energia di un leader destinato al comando illimitato perché senza rivali. La resurrezione di Renzi è per questo un’illusione, priva di agganci con solidi dati di realtà. È realistica però la speranza di una riconquista da sinistra del Pd che lo allontani dalla cattiva strada?
Le scelte compiute (dalle riforme costituzionali al Jobs Act, dalla sanità alla scuola) sono così radicali, e anche cariche di una rottura simbolica, che investono il cuore dell’identità, aprono cioè crepe che non sono recuperabili con la velleità di un ritorno dell’antico. Una parte della vecchia guardia è compromessa con il renzismo, un’altra sconta tormenti e incertezze prolungate. La questione esistenziale che tormenta il Pd non si risolve con la resa di Renzi, che comunque non ci sarà. Le gesta di un rottamatore che trascende storie e identità nascono da analisi errate, non sono puri gesti isolati. Le velleità leaderistiche appaiono ora, al momento del crollo, surreali nelle pretese di guidare un facile sfondamento e grottesche nelle forme sceniche così distanti dalle movenze di uno statista. Nelle sue trovate grossolane Renzi però ha ricevuto un sostegno totale da una provinciale cultura politica prevalente in Italia.
Sono stati sfornati in quantità industriale saggi sul partito del capo, monografie e pamphlet sulla leadership che archivia ogni forma partito e la graffia come una zavorra inutile. Infiniti editoriali sono stati regalati sulla virtù neorinascimentale sull’energia creatrice dell’uomo solo al comando che congela gli inutili gruppi dirigenti. Al tempo della sconfitta appare con trasparenza che la democrazia del leader è nient’altro che una caricatura (in ogni città vincono la carica monocratica candidati del tutto sconosciuti). Nella gestione reale dell’organizzazione essa coincide con una pratica deteriore che consegna i territori a potentati locali barricati entro sovranità inespugnabili.
La lotta dura di Renzi contro il principio di realtà non solo era una riedizione postmoderna del donchisciottesco rifiuto dell’ordine del mondo reale. Con le sofisticate trovate della comunicazione ipertecnologica, essa era la maschera deviante che trasfigurava le credenziali essenziali di una forza di sinistra, che non può trascendere una cultura della verità senza tradire le sue stesse ragioni costitutive, clausole identitarie.
Con il suo populismo di governo, che dichiarava guerra alla casta e raccontava di un mondo fantastico abbellito con mirabili riforme, Renzi si illudeva di contenere il populismo dal basso che raccoglieva la rabbia delle periferie, la disperazione dei precari, le frustrazioni degli esclusi, la speranza dei senza voce. Mettendo al potere dei giovani di bella presenza, e maneggiando aggeggi ipertecnologici o indossando il giubbotto di Fonzie, Renzi ipotizzava di rappresentare con simboli facili le ansie di generazioni condannate, perdute.
Sono stati proprio i giovani a mostrare la lontananza di un ceto politico privilegiato e senza capacità di governo dalle reali percezioni di malessere che accompagna un mondo di esclusione, di contrazione di ogni principio di speranza. Il populismo dall’alto viene avvertito come una maschera restrittiva, come un’insopportabile simulazione che nasconde potenze arcane, e risulta impotente dinanzi al populismo dal basso che dà forma espressiva alla condizione reale di precarietà, disagio.
La cesura tra la leadership e il vissuto quotidiano è così forte che Renzi non potrà rimediarvi in alcun modo. Come potrebbe schiaffeggiare Marchionne, i finanzieri, i petrolieri, le multinazionali e dire che il Jobs Act va ritirato e che i sindacati sono importanti, che la riforma costituzionale è sbagliata e che il parlamento è un’istituzione decisiva, che il preside sceriffo è una sciocchezza, come il partito della nazione e gli strani amori con Verdini? Lo scarto tra Renzi e la realtà sociale è totale, non rimediabile dopo il voto di incontenibile protesta.
Non c’è però solo da celebrare un effetto liberatorio nella sconfitta del rottamatore respinto in ogni città. Non sfuggono i rischi di un sistema senza controllo, le incognite sugli effetti di una slavina che ha travolto la capacità di resistenza, fatto saltare il controllo del territorio, lacerato il legame sentimentale con i ceti popolari. La guerra di movimento contro il renzismo è stata nelle città un momento indispensabile per liberare forze, per impedire il successo delle prove generali del partito della nazione.
Chi potrà recuperare il pensiero, la cultura di una guerra di posizione per sfruttare le opportunità connesse alla crisi del renzismo? Il punto di partenza deve essere la coscienza della radicalità del tonfo che autorizza anche domande ultime sull’usura definitiva dello strumento Pd, che ha perso radici e preziosi serbatoi d’identità. La metamorfosi del Pd in quello che gli apologeti chiamavano già il Pdr rende poco credibile, e comunque ardua, la possibilità di una sua ricollocazione a sinistra dopo un cambia della guardia.
Mentre si appresta a incalzare il leader calante, la minoranza dovrebbe porsi anche la domanda ineludibile. E cioè se dopo Renzi restano ancora spazi di sopravvivenza competitiva al Pd e se invece non è il caso di separare i percorsi e avviare la fabbrica di una cosa nuova a sinistra. Muovere le pedine dopo la catastrofe di ottobre potrebbe essere una mossa tardiva. Arginato il renzismo, tocca intraprendere un lavoro di cultura politica e di organizzazione per ricostruire una soggettività politica e sociale nella consapevolezza che il M5S è espressione della crisi, non la soluzione.
Proprio nelle sue contraddizioni tra istanze sociali e collocazione nella destra europea, tra ipotesi iperdemocratiche e riproduzione del modello neopatrimoniale di non-partito, il M5S trova al momento un’arma vincente. Ma, alla lunga, le contraddizioni, anche se non esploderanno da sole, possono diventare oggetto di una battaglia politica. Un lavoro a sinistra per separare destini incompatibili e aggregarne di nuovi è indispensabile per ricostruire i soggetti della mediazione e quindi superare lo spettro di un sistema dal cuore antico che oscilla pericolosamente tra momenti di trasformismo e fasi di populismo. Ciò implica di ripensare la sinistra con un Pd che, dopo il triennio renziano, rischia di non avere più futuro e di avere la zavorra di un passato già troppo ingombrante.