Attualità
21 luglio, 2016

Il caso Ilaria Capua e il dovere di raccontare un'inchiesta

La scienziata è stata prosciolta dalle accuse, ma ora sarebbe assurdo mettere sul banco degli imputati i giornalisti che hanno fatto il loro dovere e raccontato l'inchiesta. Scandalosa soprattutto per la sua lentezza

Fare cronaca non significa emettere sentenze e non significa stabilire chi è colpevole o innocente. Significa riportare correttamente le notizie. E questo è esattamente quello che “ l’Espresso” ha fatto nel caso di Ilaria Capua, la scienziata italiana accusata di associazione per delinquere, corruzione ed epidemia, ora prosciolta. I magistrati conducono le indagini, e lo devono fare bene e in tempi rapidi, e alla fine, quando le prove non ci sono, è giusto che i giudici dichiarino il non luogo a procedere, come hanno fatto con la virologa, liberandola da ogni accusa, dopo essere stata sottoposta - e non si comprende ancora il motivo - ad un’indagine preliminare fra le più lunghe della storia giudiziaria. I giornalisti non sono giudici, sono autonomi dal potere giudiziario come da ogni altro potere, non ordinano sentenze, mettono in evidenza ciò che è socialmente rilevante e lo scrivono. Senza diffamare, lo raccontano. Così abbiamo fatto. Però adesso ci finisco io sul banco degli imputati, diffamato e accusato di aver “rovinato” Ilaria Capua, solo per aver riportato atti giudiziari. È mai possibile tutto ciò? È il segno di una fisiologia che non funziona in un paese democratico.

Chi detiene il potere tende al consenso, da sempre, per ottenerlo qualche volta usa le lusinghe, in altri casi le minacce, sempre fedele alla massima evangelica: «Chi non è con noi è contro di noi». È una tentazione cui non sfuggono nemmeno personaggi entrati nella leggenda come i Kennedy, che furono in polemica con James Reston, celebre “columnist” del “New York Times”, commentatore per più di trent’anni dei principali avvenimenti mondiali. Disse a John Fitzgerald Kennedy e al suo “clan”: «Quando voi siete arrivati, noi c’eravamo; quando voi ve ne andrete, noi ci saremo ancora». E così, quando si parla di giornalismo investigativo, si può pensare ai reporter americani, quelli che interpretano il loro lavoro come difesa della società, indagando e controllando attraverso reportage e inchieste, il potere: capaci di mettere in discussione anche i loro presidenti, o di polverizzare politici e candidati alla Casa Bianca. Scoprono le notizie sui traffici illeciti che coinvolgono uomini d’affari o governatori, le pubblicano e vanno avanti perché hanno il sostegno dei lettori, dell’opinione pubblica che ha fiducia in loro, nelle testate più autorevoli.

La stampa tenta, con modi più o meno garbati, di tornare ad essere il cane da guardia dei cittadini. Senza essere faziosa. Oggi molti lettori non sono più in grado né di capire né di controllare la nuova classe dirigente fondata non sul sangue ma sul denaro, che punta a conquistare il monopolio dell’informazione e rivendica pure il diritto all’impunità, al controllo dell’azione giudiziaria. E utilizza ogni caso, mediatico o giudiziario, per delegittimare e indebolire i contrappesi necessari perché una democrazia funzioni.

Enzo Biagi in una conversazione con Giampaolo Pansa disse: «Io mi sento fuori dal Palazzo, enormemente. Il Palazzo si occupa di me ogni volta che comincio a fare certi lavori, chiedendo, alcuni che mi licenzino, altri che cambi i modi, o altri ancora che non mi faccia più vivo. Ci sono tanti modi... Mi sento uno che ha il privilegio di fare un mestiere che gli fa compagnia da una vita, che ha ancora tante curiosità che lo aiutano a vivere, che ogni giorno cerca di affrontare con dignità il suo compito, che si rende conto delle grandi difficoltà che ci sono in questo paese, ma è anche convinto che molte cose si possano affrontare».

Due anni fa “ l’Espresso” ha dato notizia delle intercettazioni di Ilaria Capua e di una parte delle indagini del Nas dei carabinieri. Al tempo stesso ha raccontato alcune storie di virus e vaccini, attività commerciali svolte in parallelo a quelle di ricerca di un istituto zooprofilattico pubblico come la vendita di reagenti che, stando a quanto diceva la virologa, le rendeva, nel 2006, 700mila euro l’anno. Perché lo abbiamo fatto? Perché siamo giornalisti e nelle redazioni comandano le notizie. E questa era una notizia importante. Perché, dopo il virus dell’Aviaria che aveva scatenato il panico anche in Italia, abbiamo ritenuto di pubblico interesse raccontare come venivano a volte trattati i ceppi virali (conservati in un frigorifero di casa di un ricercatore), come venivano spediti o ceduti a manager di aziende farmaceutiche e quali interessi economici fossero in gioco. Non abbiamo mai avallato l’accusa di favorire un’epidemia tanto che abbiamo scritto: «L’allarme è stato alimentato nonostante di fatto non stesse accadendo nulla». Abbiano raccontato la creazione di un cartello fra due società, la Merial e la Fort Dodge Animal, che aveva escluso le altre concorrenti, nella vendita di vaccini veterinari per l’influenza aviaria. E abbiamo visto come si sarebbe inserito nella vicenda il marito della Capua, Richard John William Currie, manager alla Fort Dodge Animal di Aprilia, attiva nella produzione veterinaria. Conflitti di interessi? È evidente che non c’è rilevanza penale, ma resta uno spaccato poco conosciuto di come funziona il retroscena della ricerca scientifica. Un aspetto poco chiaro della scienza. L’inchiesta giornalistica ha analizzato e riscontrato ogni elemento. Abbiamo fatto il nostro lavoro, come ha riconosciuto Paolo Mieli sul “Corriere della Sera” il 30 maggio scorso: «Il settimanale ha fatto il dover suo dal momento che nessun giornalista avrebbe gettato nel cestino un incartamento così incendiario», quello sulla Capua, ha scritto Mieli, giornalista de “ l’Espresso” all’epoca delle copertine passate alla storia del giornalismo come quelle sull’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il dovere di pubblicare, di scrivere. Giusto. Perché è questa la differenza tra il dossieraggio, la macchina del fango, tenere i cassetti pieni di notizie infamanti, da diffondere al momento giusto, quando serve al potente di turno, e il giornalismo, chi fa informazione, chi fa con scrupolo e onestà il suo dovere.

Sorprende per questo che giornalisti in prima fila contro i privilegi e gli sprechi adesso ci attacchino. Blogger che sono stati consulenti per Palazzo Chigi, scienziati e alcuni giornalisti importanti hanno continuato a scrivere che i problemi per la Capua sono iniziati dopo che «è stata sbattuta in prima pagina da “ l’Espresso”». Quando abbiamo pubblicato la nostra inchiesta avevamo scritto che l’indagine risaliva a sette anni prima. Viene da chiedersi perché questi giornalisti non abbiano protestato allora. Di sicuro non hanno ripreso la notizia. Sono stati zitti e in silenzio, isolandola mediaticamente come spesso avviene per alcuni scoop o inchieste giornalistiche che riguardano personaggi importanti e influenti. Poi c’è la lentezza della giustizia che non favorisce l’accertamento della verità. In un’intervista a un quotidiano la dottoressa Capua ha sostenuto di non essere mai stata interrogata dai magistrati per questa vicenda. È bastato effettuare il fact-checking per scoprire che la virologa su questo punto ha mentito al giornalista: l’interrogatorio c’è, è del 2007, e lo abbiamo pubblicato sul nostro sito.

Primum informare, diceva Luigi Einaudi, ma deinde anzi subito, comunicare, cioè parlarsi, in una realtà nella quale resta il bisogno di capire. Perché, non occorre solo parlare delle buche nelle strade, ma anche delle altre voragini. Primum informare è dunque esercitare l’attenzione a tutto ciò che accade senza indugiare alle rappresentazioni suggestive, ma per un bisogno di conoscere e approfondire.

Abbiamo riportato fatti documentati. A questo punto sarebbe importante sapere da giornalisti, blogger e scienziati che sono intervenuti dopo il proscioglimento e la prescrizione di alcuni reati di cui era accusata la virologa, se quelle conversazioni rilevanti per la società dovevano restare segrete. E dicano se è responsabilità de “ l’Espresso” se Ilaria Capua è finita sotto inchiesta. E perché viene puntato il dito contro il giornalista che ha raccontato questo retroscena giudiziario, senza aver diffamato? Cosa avremmo dovuto fare? Sapere e tacere?

Parafrasando le parole di Leonardo Sciascia «è l’effetto del dito puntato». Se il giornalista colpisce con un sasso lo stagno immoto, il punto da cui partono i cerchi concentrici diventa l’obiettivo da colpire. Basta puntare il dito. Se un giornalista scrive certe cose in un clima stagnante, con una parte della categoria che rinuncia a un’autonomia di pensiero e la stampa che è ferma a guardare, quel giornalista si espone. È una vecchia storia. Una storia che l’Italia conosce bene, si ripete ogni volta che il lavoro del giornalista, spesso lasciato da solo a raccontare fatti scomodi, si scontra con gruppi di potere e vuole fare luce sulle zone d’ombra dove questi gruppi conducono i loro affari e le loro relazioni.

Che poi la magistratura abbia impiegato un così lunghissimo tempo per chiudere le indagini su Ilaria Capua e gli altri coindagati non è ammissibile in un Paese civile. Ma allora parliamo di questo. E non utilizziamo il caso della dottoressa Capua per provare una volta di più a chiudere i conti con il giornalismo giudiziario o d’inchiesta, per sua natura autonomo da ogni altro potere.

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