Una vita in Banca d'Italia, poi l'approdo in politica da Premier nel periodo terribile di Tangentopoli e terrorismo con il compito di salvare il Paese e il settennato al Quirinale e gli scontri sotterranei con Berlusconi. L'uomo della moneta unica con il sogno dell'Europa

«Il lunedì mattina, alle 8.00-8.30, il presidente mi telefona: “Debbo vederla”... Vengo preso e accompagnato a casa di Scalfaro: prima e unica volta, nel suo domicilio privato sull'Aurelia. Arrivo là, il presidente mi fissa con lo sguardo e dice: “Tocca a lei”», appunta quel giorno sul suo diario.

La vita politica di Carlo Azeglio Ciampi comincia il 26 aprile 1993, quando ha già compiuto 72 anni, l'età della pensione, in uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana, con una classe dirigente in rotta, decimata dalle inchieste di Mani Pulite, i conti economici sull'orlo del baratro, la mafia scatenata che uccide i magistrati e esporta la strategia stragista fuori dai confini della Sicilia.

Una situazione di emergenza che giustifica la scelta senza precedenti di Oscar Luigi Scalfaro: l'incarico di formare il governo affidato per la prima volta nella vita della Repubblica a una figura senza tessera di partito e fuori dal Parlamento, dai giochi e dai miasmi della politica arrivata al capolinea. «È la prima volta che un semplice cittadino, senza mandato elettorale, parla davanti a voi come presidente del Consiglio...», si presenta il nuovo inquilino di Palazzo Chigi davanti alle Camere nel discorso della fiducia. Un mese prima Giulio Andreotti ha ricevuto il primo avviso di garanzia per associazione mafiosa, sette ministri del governo Amato si sono dimessi, Bettino Craxi attende il voto della Camera sulle prime autorizzazioni a procedere, i tg della sera aprono con il bollettino di guerra sulle inchieste e sul marco che vola sulla lira... L'incarico a Ciampi è la chiusura di un lungo ciclo, quello aperto nel dicembre 1945 con la fine del governo presieduto da Ferruccio Parri e l'avvento di Alcide De Gasperi, l'inizio del lungo, ininterrotto regno democristiano.

L'unica tessera mai posseduta da Ciampi era la stessa di Parri, il Partito d'Azione: un filo culturale, minoritario in politica ma in sintonia con le correnti profonde dello spirito repubblicano, che ha resistito nei decenni in cui azionista diventa nel gergo del Palazzo sinonimo di velleitarismo, anche a sinistra. Le «passioni grigie», le ha chiamate il filosofo Remo Bodei, che appaiono «impiegatizie, modeste e di routine soltanto a coloro che considerano la democrazia un regime orientato dai gusti volgari e dalle opinioni superficiali o retto da lobbies che manipolano spregiudicatamente il consenso: passioni civili non militarizzate, connesse al senso dello Stato e del bene pubblico». Le passioni degli eroi borghesi come Giorgio Ambrosoli - il liquidatore della banca di Michele Sindona nominato dal predecessore di Ciampi in Banca d'Italia Paolo Baffi - che prima di essere ucciso aveva scritto alla moglie Lori: «a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito»

Eccolo qui, l'azionista Carlo Azeglio Ciampi, chiamato a fare politica da ultrasettantenne, a salvare lo Stato dopo 47 anni di Banca d'Italia, di cui 14 da governatore, in quell'autentico vivaio di intelligenze e di classe dirigente che è l'istituto di via Nazionale. Sarà il primo presidente del Consiglio extraparlamentare. E poi il primo presidente della Repubblica scelto fuori dai grandi elettori, eletto da una maggioranza ampia e trasversale.

L'uomo delle istituzioni e del recupero, per la prima volta, della parola patria, in senso risorgimentale, mazziniano e resistenziale. Il custode della Costituzione, inflessibile quando sono in gioco i valori e i principi della Carta che fonda il vivere civile. Nei diari e nelle agende curate dallo storico Umberto Gentiloni Silveri, pubblicate da Laterza con il titolo “Contro scettici e disfattisti”, Ciampi, ministro del Tesoro nel primo governo Prodi, una sola volta prende la parola in Consiglio dei ministri fuori dalle sue  competenze, il 9 maggio 1997, per schierarsi contro l'abolizione del divieto di ritorno dei Savoia in Italia. «I Savoia hanno rovinato l'Italia con atti vili e vergognosi. Sono fuggiti di fronte alle proprie responsabilità e ai propri compiti anteponendo l'interesse della famiglia a quello del Paese... La storia non si cancella, gli elementi di giudizio fondanti e decisivi di una storia comune vanno preservati e tramandati correttamente a chi viene dopo», dirà in seguito.

«Ho scoperto la Patria dopo l'8 settembre, l'ho scoperta nella mia coscienza. Sono diventato patriottico con l'8 settembre e arrivato in Italia dall'Albania maledivo di essere tornato. Sarei rimasto volentieri a seguire il mio colonnello non sapendo che lui non aveva ricevuto ordini e che tutti loro, i miei commilitoni, furono lasciati prima allo sbando e poi abbandonati al loro tragico destino. Prima di quel momento, di quella sensazione terribile, ero un buon cittadino, anzi, un buon giovane aspirante a diventare cittadino. Da presidente ho valorizzato la Resistenza nella sua accezione più ampia: credevo nell'idea di affiancare alla resistenza armata (che è stata scelta molto avanzata e consapevole) alle tante altre forme di resistenza civile. A me sembra che la patria sia rinata, o sia cominciata a rinascere, con l'armistizio e la fine del fascismo».

Non c'è nulla di irenico, dunque, o peggio e di auto-assolutorio nello sforzo di Ciampi presidente di promuovere la ricostruzione di un vissuto e una memoria comune degli italiani. E che dietro l'oggettività, gli algidi numeri del tecnico Ciampi, chiamato per dovere a sorvegliare il bilancio dello Stato e a far quadrare i conti, prima da governatore, poi da presidente del Consiglio e da ministro in via XX Settembre, c'era un cuore impetuoso, livornese, la passione del politico non di parte, ma espressione della patria tutta. Un modello  ottocentesco più che novecentesco.

Lui, Ciampi, non si tira indietro. Nel momento più drammatico, la notte del 28 luglio 1993, Ciampi è Santa Severa quando apprende delle bombe a Roma, a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. «Cerco di contattare Scalfaro», appunta il presidente del Consiglio sul suo diario, «le mie preoccupazioni sono accresciute dal fatto che si interrompe, verso le 0.20, il funzionamento del telefono collegato con il centralino di Palazzo Chigi». Lo Stato sotto assedio, le bombe nel cuore di Roma giusto cinquant'anni dopo i bombardamenti di San Lorenzo, una guerra di un pezzo di Stato contro lo Stato, il centralino del capo di governo che resta angosciosamente muto.

La patria più grande si chiama Europa. Il momento più esaltante, quello per cui sarà ricordato, è la conquista dell'ingresso nell'euro che impegna il ministro del Tesoro Ciampi nel governo dell'Ulivo: «Misi alcune condizioni formali per me molto importanti, direi discriminanti. Non mi occupavo e non volevo essere coinvolto nelle dinamiche politiche della maggioranza, nella sua composizione, nei difficili distinguo tra gruppi e partiti. Assumevo l’incarico per un compito preciso, che si chiamava euro». Il sogno della moneta unica, oggi sotto il tiro incrociato. Allora qualcosa di più della semplice unità monetaria, un progetto politico e culturale che vale una vita. «Ce l’abbiamo fatta!», si entusiasma sul suo diario il 2 gennaio 1998, quando l'obiettivo è raggiunto. «Telefono a Prodi (che è sulla neve). Quando lo rivedo per la prima volta nel nuovo anno, mi abbraccia (dopo essersi scherzosamente inchinato)».

C'è un'altra occasione in cui Ciampi interviene in Consiglio dei ministri, quando anche nel centro-sinistra spingono per dare vita a una commissione parlamentare di inchiesta sulle indagini di Tangentopoli che suonerebbe come punitiva per i magistrati: «La Commissione suscita sconcerto profondo e crescente della pubblica opinione. Il governo non può venir meno al dovere di essere un punto di riferimento. “Questione morale” è lo spirito di questo governo», interviene il ministro. La questione morale e la vigilanza contro i poteri occulti che condizionano la vita della Repubblica. «Perché accettare oggi di lasciare in posizioni di comando o comunque di influenza politica persone che allora svolsero quelle funzioni, con quei legami e condizionamenti? Solo perché sono ancora potenti?», scrive sul diario il 25 febbraio 1999 dopo un colloquio con il premier Massimo D'Alema a proposito di Francesco Cossiga che ha messo un veto sul ritorno di Ciampi a Palazzo Chigi.

È la bussola che orienta anche la sua presidenza della Repubblica. Walter Veltroni è il suo grande elettore, porta notizie nella casa di Ciampi al quartiere Salario, il 13 maggio 1999 nella stanza del ministro ad aspettare l'esito delle votazioni c'è Mario Draghi: «Sbagliammo a non sintonizzarci con la televisione che seguiva in tempo reale lo scrutinio».

Il settennato di Ciampi è condizionato dall'11 settembre, dal ritorno della guerra su scala mondiale come strumento di politica. Anni acri, dolorosi. di ferro e di sangue, con l'incubo di un attentato a Roma, come a New York, Madrid, Londra. In Italia c'è il berlusconismo dominante, il mandato presidenziale dell'ex governatore coincide in gran parte con la legislatura 2001-2006 egemonizzata dal Cavaliere.

E con Berlusconi sono scontri sotterranei, rivelati a distanza di anni. Ciampi preferisce mantenere il riserbo sulla sua azione, anche a costo di finire vittima di incomprensioni su una sua presunta debolezza o accondiscendenza verso l'uomo di Arcore. E invece, si scoprirà dopo, è stato una diga, spesso insormontabile, sulle leggi ad personam, sulla legge Gasparri che rifiuta di firmare: «Colazione con Berlusconi che dice di considerare un atto di guerra una non promulgazione». L'intervento in Iraq, soprattutto, provoca il conflitto istituzionale più duro, perché Berlusconi si è rivenduto con gli americani e con l'amministrazione Bush quello che non è nelle sue disponibilità, la partecipazione italiana alle operazioni belliche, vietata dall'articolo 11 della Costituzione. Ancora una volta il custode del Colle è chiamato a intervenire.

Il 15 maggio 2006 Ciampi dice addio al palazzo presidenziale, dopo lo scambio di consegne con il successore Giorgio Napolitano. «Ore 20.05», annota, «esco in auto dal Quirinale, levo lo sguardo al Torrino. Folla plaudente in piazza». Un saluto di sobrietà, categoria in seguito abusata da altri tecnici catapultati in politica, meno appassionati di lui. Oggi è la Repubblica che si congeda da Ciampi, che ha testimoniato le virtù civiche in una stagione di difficile rinnovamento, di crisi, di transizione, interpretando il suo compito come quello del primo dei servitori dello Stato. L'ultima lezione.

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