Il remake italiano di “Machos Alfa”, su Netflix, da critica al patriarcato endemico in forma di commedia si trasforma a sua volta in stereotipo

Maschi veri, le buone intenzioni non bastano

Ci sono le buone intenzioni, un cast efficace, ottime firme sulla carta e un lancio promozionale da grandi occasioni. Il pubblico noiosamente esigente potrebbe dire che manca solo il risultato, ma si sa che non si può sempre avere tutto. 

 

Maschi veri”, remake della serie spagnola “Machos Alfa”, è una commedia di otto episodi in cui si dovrebbe affrontare con leggerezza l’annoso tema del patriarcato attraverso le vite di quattro amici del cuore. Maurizio Lastrico, Matteo Martari, Francesco Montanari e Pietro Sermonti, sono bellocci e ben pasciuti, complici da spogliatoi e uniti dalla chat in cui si esprimono come fossero ancora in terza media. I comportamenti da manuale li abitano con agio, commenti sessisti e tavolette del water lasciate alzate comprese. Fischiano alle ragazze, non sopportano di avere un capo donna, e sudano sui campi di padel.  

 

Chi più chi meno considerano le donne deboli e il sesso forte, cercano conforto nell’abbraccio materno e non cantano in pubblico perché si può rischiare tutto ma non la virilità. In compenso si uniscono al grido di dolore del «Non sappiamo più come comportarci», creando una fastidiosa assonanza con quel «Non si può più dire niente» che affligge il nostro tempo e che troppi mostri ha creato, mentre usano tutti i loro sforzi per tenere in piedi una vita pseudo coniugale e nulla più. 

 

Come se non bastasse si affiancano delle compagne di vita altrettanto insopportabili. Che se si buttano nel mondo del lavoro, diventano influencer in tre giorni, urlano a cena il loro desiderio neanche fosse una forma nervosa, sono appiccicose, ambiscono sempre al matrimonio («Non ha avuto neanche il fegato di sposarmi») non possono fare a meno della cameriera col grembiulino immacolato e quando si sentono perdute vanno a cercare loro stesse in palestra per ricostituire se non una solida coscienza di sé almeno degli addominali definiti. 

 

Praticamente la critica generica a una società fondata sulla discriminazione di genere riesce nell’impresa non facile di tradursi in uno stereotipo a sua volta, dove tutto è talmente eccessivo e fasullo da risultare puntualmente inefficace, pura somma di cliché intrisi di retorica spicciola. 

 

E viene quasi da tifare per loro, maschi fintamente veri, piagnucolosi e sentimentali, costretti a vivere per otto episodi circondati da perle di banalità. Tipo il cameo di passaggio di Ilary Blasi, scelta a simbolo di indipendenza per misteriosi meriti acquisiti sul campo: «Ricordati che gli uomini possono fare quello che vogliono, le donne no». Come direbbe Troisi di fronte a Savonarola, «Mo’ me lo segno».

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