Processi partecipativi, e non autoritari. Partendo dai comitati di resistenza territoriale. Includendo, e non isolando i più deboli. L'autrice interviene nel dibattito de l'Espresso sul rapporto fra donne e ruoli di vertice

Nel 1982 tutti i telegiornali seguivano l’evoluzione del conflitto militare - repentino quanto anacronistico - voluto dalla prima ministra Margaret Thatcher per far restare britannici i quattro scogli delle Falklands reclamati dall’Argentina. Si era in piena guerra fredda, Sting stava già scrivendo “Russians”, il tema della pace era nei programmi di tutte le scuole dell’obbligo e la mia maestra ripeteva ottimisticamente che se il mondo lo avessero comandato le donne sarebbe stato più pacifico. Io ero solo in quinta elementare e avrei tanto voluto crederle, ma quelle immagini quotidiane erano già sufficienti per capire che una donna poteva declinare i ruoli decisionali con una ferocia che non aveva niente da invidiare ai maschi.

Se l’obiettivo era quello di rendere il mondo un posto migliore non sarebbe stato sufficiente essere solo persone migliori e neanche un genere migliore: occorreva mettere in discussione quel preciso modello di potere che rende peggiore chiunque lo detenga. Fu Giulio Andreotti, citando Talleyrand, a descriverlo meglio di tutti come qualcosa che “logora chi non ce l’ha”. Quel potere è dunque una forza sottrattiva, perché qualcuno lo possiede e qualcun altro no, e allo stesso tempo è logorante, perché chi lo detiene deve impiegare molte energie a difenderlo, mentre chi ne è privato continua a organizzarsi per pretenderlo. In quelle cinque parole di Andreotti c’è un girone infernale sfuggito anche a Dante, la sintesi di un mondo belluino che si esprime solo attraverso la gerarchia, la supremazia, l’annichilimento dell’avversario e la muscolarità esibita di pensieri, gesti e parole.
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Quel potere è sempre contro qualcuno e non bisogna temere di definirlo un patrimonio maschile, perché nei secoli sono stati gli uomini a codificarlo, perpetuandolo, agendolo e difendendolo come modello senza mai discuterlo. Così com’è, quel potere può passare tale e quale nelle mani delle donne, come Thatcher, Merkel, Rodham Clinton e anche qualche ministra nostrana dimostrano, oppure può essere profondamente rimesso in discussione a partire dall’esperienza storica delle donne, il genere che nell’evoluzione sociale è sempre stato nel ruolo del “logorato”.

Esiste un potere femminile? No, ma esiste certamente una via femminile al potere. Le donne non si sono mai trovate, se non in pochissimi casi, nella posizione di sottomettere qualcun altro. La stragrande maggioranza di loro, quella che non era potente e non poteva chiedere protezione a un uomo potente, ha dovuto tendere la mano alle altre donne per non essere schiacciata da dinamiche di forza familiare e sociale tutte a vantaggio maschile. In una filiera di fragilità paritarie non è la legge del più forte quella vincente: se ci si salva, nei margini lo si fa insieme.

Ai confini del potere forte, dove ci sono i poteri deboli, le logiche sono meno gerarchiche e più reticolari. È lì che nascono movimenti collettivi e nuove forme di organizzazione sociale, perché quando si è tutti fragili ci si teme di meno. Le donne che hanno vissuto questa esperienza sanno come replicarla per dare vita a un potere non più sottrattivo, ma generativo, e offrire a tutti - maschi compresi - l’opportunità di essere potenti insieme, anziché uno contro l’altro. Esiste un processo, riassunto nel termine intraducibile di empowerment, che mostra che non c’è bisogno di portarlo via a qualcuno, perché il potere i deboli se lo danno da sé riconoscendolo e riconoscendosi.
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Nella storia questo tipo di potere si è presentato in forme talvolta eclatanti, come quelle esercitate dalle femministe, dai movimenti Lgbt e dai neri d’America, ma ci cammina accanto ancora oggi in forme meno visibili persino nell’arretratissima società italiana, quella che quando dice “potere” intende per lo più quello dell’uomo periodicamente solo al comando, circondato da gufi e cerchi magici. Quella modalità di potere è riconoscibile nella nascita dei comitati di resistenza territoriale, dove i cittadini esclusi dalle decisioni che avrebbero invece dovuto riguardarli si sono ripresi il diritto di parola e hanno dato vita a straordinari laboratori civici, proprio negli stessi anni in cui i partiti chiudevano le sezioni e cominciavano a considerare la partecipazione un’inutile perdita di tempo.

Lo si può incontrare nello sviluppo sempre più frequente dei processi partecipativi, che in Italia sono purtroppo lasciati alla discrezione degli amministratori, mentre in Francia farli è già legge dello Stato, perché sono più convenienti ed efficaci della decisione presa in solitaria contro tutti e tutto. È visibile soprattutto nelle piccole esperienze amministrative che hanno a capo persone provenienti da esperienze di margine, esercitate a includere e a considerare il conflitto come richiesta di aiuto, non solo come dissenso. Non è un caso che queste persone, sindache o assessore, siano soprattutto donne, perché per arrivare al potere sono sempre bastati gli uomini, ma ora che serve ripensarlo gli uomini da soli non bastano più.