Uno dei più grandi ritardi del nostro Paese è quello dell'occupazione femminile. Che resta enorme nonostante gli ultimi dati la diano in lieve crescita. Del resto le ricerche lo dimostrano: più potere alle donne nelle aziende vuol dire più profitti, ma anche più crescita per l'intero Stato, perfino più figli. Il nostro Paese resta in coda alle classifiche europee. Ecco cosa bisogna fare. Subito
L'aumento dell'occupazione femminile, che secondo gli ultimi dati Istat è cresciuta dello 0,4 per cento? Una buona notizia, ma la strada è ancora lunga. Dalla Francia alla Germania, dall'Olanda alla Norvegia, nei Paesi dell'Europa del Nord le donne lavorano più che in Italia. Merito dei governi, che spendono più soldi per aiutare le famiglie e incentivare le mamme a riprendere la carriera dopo un figlio. Invertire la rotta è necessario. Le ricerche lo dicono da anni: più occupazione femminile vuol dire più profitti per le aziende, ma anche più crescita economica per l'intero Stato. E perfino più figli.
Ecco la nostra inchiestaDonna conviene. E non è solo questione di giustizia sociale. Conviene perché aumentando l’occupazione femminile aumentano i guadagni delle imprese, il Pil, e le nascite. Ma l’Italia non sembra essersene accorta: con meno di una donna su cinque al lavoro, è in coda all’Europa. «È un ritardo che paghiamo, visto che
le lavoratrici sono più produttive, e garantiscono quindi maggiori guadagni alle aziende».
Adele Nardulli lo dice per esperienza. Trent’anni fa ha fondato a Milano insieme a Laura Gori la
Trans-Edit, una piccola società che offre traduzioni e interpreti in tutto il mondo. Con una caratteristica:
dei suoi venticinque dipendenti, venti sono donne. Assunte come manager, grafici, contabili, commerciali. Mestieri che in Italia vengono svolti solitamente da uomini. Alla Trans-Edit no, sono al femminile. «I risultati ci danno ragione», dice lei. Dal 2010 al 2014, nonostante la crisi, il loro fatturato è passato a 2,8 a 3,6 milioni di euro, l’utile netto da 28 mila a 305 mila euro.
È quello che dimostrano da tempo le ricerche: le donne portano soldi. Un rapporto pubblicato a febbraio di quest’anno dal
Peterson Institute for International Economics, storico centro studi americano, ha analizzato i risultati di quasi 22 mila aziende sparse in 91 nazioni. Dimostrando che
le compagnie dove almeno il 30 per cento del consiglio d’amministrazione è “rosa” riescono ad aumentare i profitti del sei per cento all’anno, contro il tre di media.A marzo
un’indagine del Fondo monetario internazionale ha aggiunto un altro tassello al mosaico. Per capire se le società con più donne manager avessero risultati finanziari migliori, l’Fmi ha analizzato i bilanci di due milioni di società in Europa. La conclusione? «Sostituire un uomo con una collega, nelle direzioni o all’interno dei consigli di amministrazione, porta
una redditività maggiore compresa fra lo 0,08 e 0,13 per cento».
In Italia l’unica iniziativa che ha dato risultati concreti in questo senso porta - a sorpresa - la firma del governo di Silvio Berlusconi. Nel 2011, al tramonto della sua ultima legislatura, il Parlamento approvò una norma che impone alle aziende quotate in Borsa di
avere un terzo dei membri del cda appartenenti «al genere meno rappresentato». In pochi anni il nostro Paese è diventato così il secondo al mondo dopo la Norvegia per numero di consigliere nelle stanze dei bottoni.
Un cambiamento radicale, che ci ha fatto guadagnare 28 posizioni nell’indice mondiale sulle differenze di genere,
con ricadute positive, secondo gli esperti, anche sulle performance di quelle aziende.Se Berlusconi può vantare così il merito di aver lasciato un’impronta “rosa” ai piani alti del mercato, nel 2016 l’arretratezza italiana -
quarantunesima al mondo per occupazione femminile - non è stata una priorità per il governo di Matteo Renzi. Il problema è scivolato in terza fila con la stessa velocità con cui il rapporto ministri-ministre passava dal 50-50 dell’insediamento all’80-20 di oggi; allo stesso passo con cui il parlamento “più rosa della storia” (grazie al 30 per cento di elette) vede solo 2,6 segretari o sottosegretari donna su dieci,
come segnala OpenPolis. Soltanto a maggio di quest’anno, dopo mesi di proteste,
sono state affidate a Maria Elena Boschi le deleghe sulle pari opportunità, e da allora il ministro delle Riforme, impegnata a promuovere il sì al referendum, si è espressa sul tema in sole due occasioni riportate dalle agenzie di stampa.
L’ultima misura attiva pubblicata sul sito dal “
Comitato nazionale parità”, un organo del ministero del Lavoro, invece, è del dicembre scorso: 185mila euro di finanziamenti vinti da due società per il reinserimento di disoccupate trentenni e imprenditrici del “food”. Non proprio una manovra strutturale. E l’ultima norma risale ancora all’ottobre 2015, un anno fa;
regola gli incentivi per assumere colleghe nei settori in cui il divario di genere resta troppo alto: costruzioni, trasporti, manifattura. Un’iniziativa meritoria, i cui risultati effettivi però non sono ancora stati valutati dall’Inps. Di certo c’è la fotografia del problema. E non solo sui Tir o nelle raffinerie. Nell’elenco delle professioni più maschili rientrano infatti anche
gli “imprenditori e direttori di grandi aziende”: solo 15 su 100 sono donne. Lo stesso nelle stanze dei tecnici di reparti scientifici. Poco meno tra ingegneri e architetti. Nelle piccole aziende va leggermente meglio: ma le manager sono la metà degli uomini.
QUEL MURO INVISIBILEI successi nel Palazzo e nei cda nelle società quotate, insomma, non raggiungono la massa. Non diventano normalità.
Gli ultimi dati Istat ribadiscono l’immagine di un Paese bloccato, dove restano intatte le divisioni fra “mestieri per femminucce” e “ruoli da maschietti”: in istruzione e sanità le donne erano il 72 per cento degli occupati prima della crisi, e lo sono rimaste (anzi, aumentate) dopo. Dentro scuole e ospedali gli uomini non si sono fatti avanti. Forse perché gli stipendi di maestri o infermieri non sono allettanti per i “capifamiglia” dell’Italia contemporanea.
Resta che mentre l’Europa del Nord si avvicina alla parità, da noi
la “segregazione occupazionale”, come la chiamano i centri studi internazionali, resta asfittica. Le donne provano a correre in altri ambienti, dove il merito è più facile da misurare: in finanza la loro presenza è aumentata del 3,7 per cento dal 2008 al 2015. Un’avanzata positiva anche per i bilanci degli istituti: secondo la Banca d’Italia le dirigenti «hanno una maggiore avversione al rischio», e questo riduce la possibilità di prestare soldi alle persone sbagliate.
I benefici poi non cadono solo sulle imprese private.
Una ricerca empirica dell’Ocse pubblicata quattro anni fa ha certificato, dati alla mano, che esiste una relazione fra il Pil di un Paese e il ruolo delle donne: più aumenta il tasso di occupazione femminile, più cresce il prodotto interno lordo, quindi i fondi in cassa per lo Stato e per il welfare. Gli economisti hanno calcolato
che se le donne lavorassero quanto gli uomini, entro il 2030 l’economia dei paesi Ocse aumenterebbe del 12 per cento. Non solo: seguendone i consumi, gli esperti ipotizzano che a beneficiarne sarebbero quelli culturali. Le donne battono gli uomini nell’acquisto di libri, ad esempio: se lavorassero di più, aumenterebbero banalmente gli incassi delle librerie.
PIÙ IMPIEGATE = MENO TASSEIn Italia però sta accadendo proprio il contrario: rallenta la crescita economica e diminuisce l’occupazione femminile. Con l’ultima frenata registrata fra aprile e giugno, la prospettiva è di avere a fine anno un aumento del Pil di solo l’un per cento. Tradotto in pratica, significa non avere i soldi necessari per cominciare a tagliare da subito l’Irpef, per esempio, la tassa sulle persone, la più odiata dagli elettori. Banca d’Italia in uno studio del 2013 ha quantificato le risorse che stiamo sprecando:
se lavorassero sei donne su dieci, come da obiettivo europeo, invece delle attuali cinque scarse, il Pil aumenterebbe in teoria del 7 per cento. Molto più dello “zero virgola” di cui il governo è a caccia.
Oggi però le donne stanno pagando la crisi più dei colleghi. «
Sono i contratti maschili a trainare la crescita e i soli ad aumentare in termini di volumi»,
segnala l’Inps nell’ultima relazione sulle “comunicazioni obbligatorie” di nuovi impieghi nel 2015: 398 mila in più per gli uomini; 5.421 in meno per le donne. Non solo. Fra le ragazze la “segmentazione” è maggiore: ovvero tendono a finire e ricominciare più in fretta, a essere licenziate e dover ripartire più di frequente.
E se il governo si è impegnato ad aiutare i giovani, lo ha fatto soprattutto per gli “i”, appunto:
i lavoratori under24 sono aumentati sì, ma fra i maschi (più 7 per cento), mentre fra le loro compagne la crescita è stata solo dell’uno per cento. Piuttosto, la componente femminile è sempre la più rappresentata fra i precari.
Il “popolo dei voucher”? È in maggioranza donna. I part-time involontari? Colpiscono principalmente loro.PAPÀ IMPEGNATI CERCASI«Anche con i nuovi contratti “a tutele crescenti” la vulnerabilità resta alta, soprattutto per le neo-mamme», sottolinea la sociologa
Chiara Saraceno: «Il Jobs Act ha migliorato le cose, almeno sulla conciliazione, ma non è ancora abbastanza. Soprattutto
poco cambierà se continuano i tagli per i servizi alle famiglie». Il 72 per cento delle ore di cura, sancisce l’Istat, è svolto ancora dalle madri. Questo rende difficile, se non impossibile, spesso, conciliare gli impegni di casa con il rientro in azienda. È un fatto tecnico: e su questo il
Jobs Act è intervenuto, in parte,
aumentando a due giorni (contro i 90 della Slovenia) il congedo obbligatorio di paternità; estendendo le garanzie alle partite Iva; ampliando i periodi di pausa, pagati al 30 per cento, per entrambi i genitori. Ma è anche un fatto culturale. Come raccontano gli uomini, ancora troppo pochi, che si stanno prendendo questo spazio.
«Al di là del peso economico che è stato per noi pagare affitto e asilo privato con uno stipendio e mezzo in due», racconta Diego Di Franco, napoletano, project manager per un’azienda lombarda, «ogni volta che accompagnavo o andavo a prendere mio figlio al nido
i colleghi mi chiedevano: “Non può farlo la tua compagna?”». E dal pediatra «sono sempre l’unico maschio e non ne capisco il motivo», continua Diego, che è seguito da
36mila papà sulla sua pagina Facebook, dove racconta una “normalità” ancora così anormale in Italia: «O nei centri commerciali? Il fasciatoio è solo nel bagno delle femmine. Eppure non è più solo il padre quello che torna stanco dal lavoro perché “porta la pagnotta a casa”.
Per cui diamoci una svegliata».
La “svegliata”, peraltro,
aumenterebbe la fertilità. Già: perché
più donne al lavoro significa pure più neonati. Le svedesi, ad esempio, sono le madri più impegnate d’Europa, e anche quelle più materne, con quasi due bambini a testa contro l’1,4 delle italiane. Una tendenza che vale per tutti i Paesi industrializzati. E che ha una motivazione: madri occupate significa famiglie con più soldi, e più soldi vuol dire maggiore possibilità di fare figli.
C’è però una variabile fondamentale: l’aiuto dello Stato.Guardando le statistiche dell’Ocse si scopre infatti che la relazione fra occupazione femminile e fertilità si è capovolta negli ultimi 30 anni. In pratica nel 1980 la Svezia era uno dei Paesi in cui le donne lavoravano di più e mettevano al mondo meno bimbi. Oggi invece la fertilità della scandinave si è impennata. Come mai? Secondo la docente di economia Manuela Samek, che segue da anni questi temi, «
il cambiamento è dovuto alle politiche di sostegno alla conciliazione e a una maggiore condivisione della gestione familiare nella coppia». Esattamente quello che manca in Italia.
La conclusione è logica, quindi:
puntare sulle donne al lavoro conviene. Per raccoglierne i frutti, però, bisogna investire. Alla Trans-Edit, piccolo laboratorio lombardo della “womenomics”, per permettere alle proprie dipendenti di dare il massimo in ufficio, le due titolari garantiscono la palestra gratuita; una stanza per la fisioterapia; l’asilo nido, il part-time su richiesta, la possibilità di lavorare da casa.
Senza tralasciare i cosiddetti servizi salvatempo: dalla frutta alla parrucchiera, a prezzi convenzionati, disponibili su richiesta in azienda. «Tutto questo ha un costo per noi, certo. Ma è un costo ampiamente ripagato dalla produttività delle nostre dipendenti», assicura Adele Nardulli. Se lo ha fatto una piccola impresa, senza aiuti, perché non potrebbe farlo il governo?