Il finanziere siciliano che trattava con Donald Trump. Il Madoff dei Parioli. Il protagonista dello scandalo Lockheed. Il banchiere di Arner e il manager di Ligresti. Industriali e professionisti. Tutti con le offshore a tassazione zero

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Il siciliano emigrato in Svizzera che ha trattato affari milionari con Donald Trump. Il protagonista italiano dello scandalo Lockheed. Il finanziere romano che si è guadagnato l’epiteto di Madoff dei Parioli. Il colletto bianco al servizio di Cosa nostra. I banchieri che finanziavano dall’Italia gli integralisti islamici. E poi industriali, armatori, manager, professionisti e avvocati. Benvenuti nel club dei no-tax ai Caraibi.

Mentre in Italia la pressione fiscale supera il 43 per cento, e in altri Paesi europei le imposte arrivano ad assorbire più di metà della ricchezza prodotta da masse di cittadini stremati dalla crisi, dall’altra parte del mondo c’è un circolo dorato di super-privilegiati. Che non pagano tasse sui loro profitti internazionali, anche se sono ricchissimi. E non hanno neppure l’obbligo di farsi identificare dalle autorità. Perché alle Bahamas è tutto legale: zero tasse e zero controlli. Anonimato totale: peggio che a Panama.

I giornali associati all’International consortium of investigative journalists (Icij), a cui partecipa “l’Espresso” in esclusiva per l’Italia, hanno avuto accesso, dopo i Panama Papers, agli atti di oltre 175.000 società registrate alle Bahamas tra il 1990 e i primi mesi del 2016. La loro prima caratteristica è che non pagano nessuna imposta sui profitti esteri. Se vendono una noce di cocco alle Bahamas, devono versare le stesse tasse dei produttori locali, per evitare odiose disparità. Ma su tutti i redditi incassati fuori dalle Bahamas, non pagano niente. Con buona pace dell’equità fiscale e della giustizia internazionale.

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Ma non basta. Questa micro-nazione con poco più di 300 mila abitanti offre ai ricchi del mondo un altro prezioso vantaggio legale: neppure lo Stato delle Bahamas si preoccupa di sapere chi siano i titolari e i gestori di quelle migliaia di società-cassaforte. Oltre agli azionisti, infatti, si possono tenere segreti perfino gli amministratori. Nei registri pubblici compare solo il nome della società, ma le caselle dei «directors» sono vuote. È questa opacità a fare delle Bahamas un paradiso non solo fiscale, ma anche societario, bancario e giudiziario. Dove chiunque può immatricolare una macchina per lanciarsi nei mercati internazionali: lo Stato caraibico ci mette la targa, ma non si cura di controllare chi sia il proprietario e neppure chi la guida. Per questo, dagli anni ’70 ad oggi, le Bahamas sono finite più volte nella bufera per aver accolto tesori di personaggi impresentabili: boss della droga, trafficanti d’armi, mafiosi, dittatori come il cileno Pinochet e il nigeriano Abacha, politici italiani come Bettino Craxi, bancarottieri internazionali e grandi evasori americani.

Nel mare di carte svelate dal consorzio Icij, “l’Espresso” ha trovato 417 file di documenti con la targa “Italy”. Sono le società delle Bahamas collegate all’Italia. Che in qualche caso, probabilmente per mostrare quel minimo di trasparenza necessaria ad avere rapporti con le banche di Paesi non offshore, hanno dovuto registrare almeno i nomi degli amministratori. Alcuni prevedibili, altri sorprendenti.

Mister Lockheed e l’anonima crociere
Antonio Lefebvre d’Ovidio è stato uno dei protagonisti dello storico scandalo Lockheed, il più grave caso di corruzione della Prima Repubblica, culminato con la condanna del ministro socialdemocratico Mario Tanassi. Dopo essersi visto infliggere due anni e due mesi dalla Corte Costituzionale, Antonio Lefebvre è tornato al centro di molte intricate vicende della finanza romana e internazionale. Nelle carte delle Bahamas compaiono diverse offshore amministrate da lui stesso, fino alla morte nel 2011, e da suo figlio Manfredi. La più ricca, per quanto se ne sa, è la Silversea Investments and Participations Ltd: la società che controlla un grande gruppo internazionale di navi da crociera. Manfredi Lefebvre ne risulta amministratore dal febbraio 2003.

Manfredi Lefebvre d'Ovidio


Dal 2000 al 2011 il padre Antonio amministra anche un’altra offshore, chiamata Aledo Ltd. Fino al 2005 lo affianca Manfredi, mentre la figlia Elvira entra solo come «supervisore» fino al 2001. Ma per cinque anni, dal 2005 al 2010, la gestione operativa della Aledo sprofonda nel buio totale: come in un gioco di specchi, la offshore delle Bahamas registra come «direttore esecutivo» una società anonima panamense, Despina Trading Company. Nel 2000 Antonio e Manfredi diventano condirettori anche della Eurosecurities Investments Ltd, fino al 2005. Dal 1999 Manfredi amministra anche la Silver Shadow Shipping Co., dove nel 2007 subentrano due manager delle navi da crociera: prima Amerigo Perasso e dal 2010 Vincenzo Visone.

Interpellato da “l’Espresso”, Manfredi Lefebvre risponde con una lettera del suo avvocato, Antonio Rappazzo: «Il mio cliente risiede da oltre 40 anni all’estero, nell’attualità a Monaco, ove è stato eletto imprenditore dell’anno ed insignito dell’ordine di St. Charles. In Italia non possiede più alcun bene», per cui non deve dichiarare nulla al fisco italiano. Il legale conferma che Manfredi Lefebvre «presiede la Silversea», ma aggiunge che «non la ha costituita lui né suo padre, il compianto professor Antonio, giurista di chiara fama, così come non è socio di alcuna delle società del gruppo crocieristico». E neppure delle altre offshore, di cui conferma di essere stato «amministratore fino al 2005».

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Ma allora a chi appartengono le navi giganti targate Silversea? E come mai l’anonimo proprietario ha affidato quel colosso della navigazione proprio ai Lefebvre? Mistero. Che s’infittisce sentendo cosa spiega a “l’Espresso” la signora Elvira Lefebvre d’Ovidio, inserita in una sola offshore per pochi mesi: «La Aledo Ltd è una entità estera creata alcuni decenni fa da mio padre Antonio. La sua principale attività è la compagnia di navigazione Silversea, oltre a numerosi immobili sul territorio italiano. Le altre società delle Bahamas credo facessero parte del gruppo Aledo. Mio padre, negli anni, ha gestito con mio fratello Manfredi e un altro parente gran parte del suo patrimonio, che attualmente è tra di loro ripartito. Essi ne hanno l’effettivo controllo e l’esclusivo godimento. Io non ho mai avuto alcun ruolo nella gestione di tale patrimonio». Tra i diversi rami della famiglia, insomma, non c’è grande armonia. E il problema sono proprio le offshore.

Gli amici italici di Trump
Antonino Saladino, nato a Camporeale, in provincia di Palermo, nel 1936, è un finanziere italiano che ha fatto fortuna in Svizzera, dove ha fondato la Gesfid. Una società di gestione di patrimoni privati che è arrivata ad amministrare un miliardo e mezzo di franchi elvetici ed è stata poi venduta al gruppo Ligresti, che poco prima del crac l’ha ceduta a una banca svizzera.

Negli anni ’90 Saladino lancia un maxi-investimento ai Caraibi: ottiene in concessione dal governo locale la parte nord dell’isola di Canouan, nell’arcipelago delle Grenadine. Otto chilometri quadrati di oasi verdi, spiagge bianchissime, mare color smeraldo, barriere coralline. Dove c’era solo un villaggio di pescatori senza elettricità, Saladino crea un polo turistico per vip con hotel extra-lusso, ville esclusive e aeroporto privato. Il modello è la Costa Smeralda dell’Aga Khan. E a controllare tutto è una società delle Bahamas, chiamata Canouan Resorts Development Ltd.

Ai Caraibi però lo stile sardo non funziona. Negli anni Saladino aggancia diversi soci forti. E il 21 novembre 2003 arriva Donald Trump, oggi candidato alla Casa Bianca. Il suo braccio destro, Scott C. Butera, annuncia così l’accordo con la offshore di Saladino: «Mister Trump è entrato ufficialmente a Canouan, dove svilupperà ville di lusso e diventerà il gestore del Casinò dell’isola, per trasformarlo in un centro di vacanza di alto profilo, che avrà la capacità di attrarre clienti internazionali sofisticati».

Interpellato da “l’Espresso”, Saladino ha fatto sapere, tramite un portavoce, che «Trump era molto interessato, per pubblicizzare Canouan finanziò anche un torneo di golf con premi per milioni di dollari, ma poi ha rinunciato all’affare». Sui motivi della rottura, nessuna spiegazione. Eppure il veicolo societario era già pronto: nella dichiarazione obbligatoria per le presidenziali Usa, il candidato repubblicano segnala di controllare la Trump Canouan Estate Llc, con sede nel Delaware, un paradiso fiscale interno agli Stati Uniti. Quella società possiede tuttora vasti terreni nell’isola delle Grenadine, di valore compreso tra 1 e 5 milioni di dollari, che oggi non rendono nulla. Quindi l’alleanza offshore è naufragata quando Trump aveva già investito diversi milioni.

In questa e in un’altra decina di società delle Bahamas, il banchiere Saladino è affiancato da altri uomini d’affari italiani, come Achille Pastor Ris, che però «è diventato da decenni cittadino svizzero». Dal 1998 fino al 2004 (almeno), nel consiglio direttivo della Canouan Resorts entra un industriale tuttora italiano, Luca Rossetti, titolare con i fratelli Dario e Diego del celebre calzaturificio fondato nel 1953 a Parabiago dal padre Renzo. Contattato da “l’Espresso”, il signor Rossetti spiega che «si tratta di un investimento turistico-immobiliare effettuato da mio padre diversi anni fa», che poi «è stato regolarizzato per il fisco italiano».

La offshore dei vip di Canouan ha un capitale sociale notevole: 50 milioni di dollari, che nel 2006 raddoppiano a cento milioni. “L’Espresso” ha chiesto a Saladino se tra gli investitori ci fossero clienti italiani della sua Gesfid e se qualcuno abbia poi dovuto mettersi in regola con scudi o altri condoni fiscali. Ma il portavoce ha rifiutato di rispondere: «Chi vi credete di essere, la Guardia di Finanza?».

Il manager di Ligresti ?e il fondatore di Arner
Nicola Giorgio Bravetti, socio fondatore della Arner di Lugano, è uno dei banchieri che erano autorizzati a gestire i conti segreti di Berlusconi proprio alle Bahamas, quelli che sono costati al leader di Forza Italia la condanna definitiva per frode fiscale. Nello stesso paradiso offshore, oltre ai depositi, Bravetti ha gestito anche una costellazione di società cassaforte. Ad esempio, alla data del 7 ottobre 2015 risulta ancora direttore (in carica dal 7 marzo 2008) della Capricorn Management Services Ltd. L’altro direttore di quella offshore delle Bahamas è Mario Speciale, un manager milanese che è stato amministratore di varie società del gruppo Ligresti dal 2000 al 2013. Finora si ignorava che tra il mondo della Arner e lo staff di Ligresti esistessero legami nella finanza offshore, sopravvissuti anche al crac dell’ex re del mattone. Speciale però minimizza e spiega così il suo ruolo alle Bahamas: «I miei rapporti con Capricorn sono di fatto cessati, non sapevo di essere ancora citato. La società gestisce fondi d’investimento. Col dottor Bravetti siamo amici da almeno vent’anni. Il mio ruolo era di tecnico, legato alla mia esperienza sui bond. Non esiste alcuna relazione fra il mio ruolo nel gruppo Fondiaria-Sai e la società Capricorn». Il manager precisa inoltre di ignorare chi fossero i clienti che hanno investito nel fondo di Bravetti alle Bahamas.

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Il banchiere, oltre che dell’oscurissima Arner Bank and Trust di Nassau, risulta gestore di molte altre società delle Bahamas, come Vivaldi Advisory, Dorset Advisory, già denominata Thatcher Holdings, Monument Holdings, Clear Water Management, Stamford Advisory e altre. L’esistenza di tante società offshore legate alla Arner, unita alla scoperta che almeno alcune gestiscono fondi d’investimento anonimi, non è rassicurante. Nel 2015 Bravetti è stato condannato a Milano, con sentenza definitiva, per aver nascosto, proprio in un fondo alle Bahamas, circa 13 milioni di euro dell’imprenditore inquisito per mafia Francesco Zummo, già condannato per riciclaggio di una parte del tesoro di don Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Cosa nostra a Palermo.

Le casseforti del madoff dei Parioli
Gianfranco Lande è il protagonista di uno scandalo finanziario da 300 milioni di euro che gli è valso il soprannome di Madoff dei Parioli. Condannato per una bancarotta da 225 milioni di euro, è tornato libero dopo cinque anni e mezzo di carcere e ora attende altri processi. Le sue vittime sono decine di investitori della Roma bene. Lande si è sempre difeso sostenendo di non essersi arricchito con i soldi dei clienti. La procura di Roma, con il pm Luca Tescaroli, lo accusa invece di aver dirottato una parte del tesoro in una serie di società-cassaforte alle Bahamas. “L’Espresso” ha trovato i registri di queste offshore: sia quelle al centro dei processi, come Dharma Holding e European Investment Management Ltd, sia altre di cui si sa pochissimo, come Karla Derivaties Strategies, Eurogrowth Fund Limited, Blue Water Capital Management, Financial Tradeware.

Gianfranco Lande


Con i suoi più stretti collaboratori, Lande guida anche la Fenstar Investments Limited, citata da lui stesso come una sua cassaforte: «Una mia società ad uso personale». Tutte queste società vengono cancellate in blocco nel 2012, quando esplode il dissesto. Gli eventuali soldi, dunque, sono ormai spariti verso destinazioni sconosciute. Una prima traccia può venire da una società che non era mai emersa nelle indagini giudiziarie. È una offshore registrata nel 1995 nell’isola esotica di Niue con il nome di Pro-asset Management Corp; “l’Espresso” ha scoperto che il potere di rappresentarla e gestirne eventuali fondi spetta proprio a Lande e a un suo fiduciario. Alle Bahamas c’è anche un’immobiliare denominata Lande Estates Limited, ma è impossibile capire a chi appartenga: nei registri non c’è neppure il nome di un director.

Unicredit in Paradiso
Alle Bahamas è stata registrata anche la società Unicredit Finance Corporation Limited, costituita il 31 dicembre 1994 nella capitale Nassau e cancellata il 2 settembre 2002. Erano gli anni in cui Alessandro Profumo stava trasformando la banca italiana in un gruppo internazionale. La filiale alle Bahamas, con un capitale sociale di 23 milioni di dollari, è stata gestita da sei manager italiani. Unicredit precisa che la controllata estera «è stata inserita nei bilanci consolidati come da regole contabili», mentre «il fisco italiano ha sempre vigilato sui grandi gruppi internazionali verificando l’osservanza delle norme». “L’Espresso” ha chiesto se alle Bahamas ci fossero anche fondi provenienti da clienti italiani e, in quel caso, se il fisco ne sia stato informato, ma Unicredit non ha risposto, spiegando che dopo più di dieci anni viene meno l’obbligo di tenere tutta la documentazione.

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