Il nuovo player del mercato petrolifero, in grado di modificare gli equilibri del settore su scala mondiale, sono i 'teapot', i produttori indipendenti di benzina e petrolio che in Cina raffinano la materia prima proveniente dai vari paesi del mondo. Ecco come funziona questa nuova fetta del mercato petrolifero e che peso ha sullo scenario internazionale

La realizzazione di un impianto petrolifero a Shenzhen
Mentre i grandi paesi produttori di petrolio aderenti all'Opec cercano una composizione degli interessi contrastanti di Arabia Saudita e Iran sulle quote di produzione, comunque vada la riunione informale che si tiene mercoledì ad Algeri convocata per questo obiettivo, sullo scenario energetico si è intanto materializzato un nuovo player, che sta scompaginando non poco gli equilibri tra i big dell'oro nero. È la Cina.

Ma questa volta non si tratta né del ruolo sui mercati dei giganti dell'energia cinese, le tre grandi aziende di Stato (Sinopec, Petrochina e Cnooc), che impiegano milioni di lavoratori e sono politicamente potentissime, né del fatto che la Cina sia ormai il primo importatore e consumatore mondiale di petrolio.

A preoccupare è un nuovo fenomeno, nato un anno fa e cresciuto a ritmo velocissimo: quello dei “Teapot”. Di che cosa si tratta? Così – teiere - vengono chiamati i produttori indipendenti di benzina e gasolio che hanno incominciato a raffinare piccole quantità con distribuzione a livello locale e ora sono organizzazioni sempre più grandi e ambiziose, tanto da assorbire il 15 per cento delle importazioni di petrolio del paese asiatico, che da inizio anno hanno superato i 7 milioni di barili. Secondo alcune stime, la capacità di raffinazione dei Teapot è pari a un terzo del totale del paese e ha contribuito in maniera sostanziale a far rialzare le quotazioni di greggio dai minimi a cui erano arrivate.

Tanto per dire, oggi la metà della produzione di greggio dell'Angola è destinata alla Cina dei Teapots, mentre il petrolio dell'Arabia Saudita, che era il fornitore più importante della Cina ma anche degli indipendenti con oltre un milione di barili al giorno, ora vede aumentare la pressione competitiva di altri paesi produttori, per esempio della Russia, che è arrivata allo stesso livello saudita come fornitore dei nuovi protagonisti del mercato.

Il centro più importante dei Teapots è la provincia di Shandong, a sud di Pechino, dove il porto di Qingdao è diventato un terminal che gira giorno e notte a pieno ritmo, e dove cresce la pressione per nuove infrastrutture. A trasformare la zona nel posto più “hot” del mercato petrolifero, l'unico effervescente in un mondo dove le vendite e i consumi languono, è stato lo stesso governo cinese, che alla metà del 2015 ha dato il via libera alla iniziativa privata.

All'inizio i Teapots compravano dai big del petrolio cinese, cioè le compagnie di Stato, la materia prima, e la trasformavano in benzina e gasolio da rivendere sempre a loro stessi. Successivamente, hanno ottenuto la licenza ad importare il greggio che ne ha sancito l'autonomia: Chambroad, uno dei più grandi indipendenti, ha subito concluso un contratto con i Sauditi, ma in breve la nuova categoria di piccoli petrolieri in crescita si è accorta che sarebbe stato più utile consorziarsi per ottenere condizioni migliori. Soprattutto perché il loro successo li ha messi nella condizione di diventare presto anche esportatori di prodotti finiti, che vendono a compagnie occidentali che hanno la propria rete, come la Bp e a Shell.

Il segreto degli indipendenti sta ovviamente nel prezzo, visto che il loro costo di produzione si stima sia di 10 dollari inferiore al quello dei big. Questo, e la loro intraprendenza, li spinge ad allagare i mercati vicini, dal Sudest asiatico a Singapore, con la loro benzina e soprattutto con il gasolio a basso prezzo, che se restassero in Cina, vista la super abbondanza di prodotti finiti, darebbero molto fastidio perché metterebbero le quotazioni interne sotto pressione.

Ma quello che conta di più negli equilibri internazionali dell'oro nero è il fatto che ormai i Teapots sono collettivamente un compratore importante, anche se molto esigente sul prezzo e molto flessibile e quindi in grado di spostarsi velocemente da un fornitore ad un altro: in un mercato petrolifero così provato, rende più acuta la concorrenza all'interno dei paesi Opec e tra loro e la Russia. Eppure nessuno potrebbe più fare a meno delle “teiere” cinesi, che tutte insieme rappresentano una domanda significativa di materia prima. Se cominciassero a entrare in crisi, l'effetto sull'Opec si sentirebbe, e la possibilità di ritrovare un equilibrio sulle quote sarebbe più remota.

Il vero rischio che pende sulla testa di quello che è stato definito il “fenomeno più importante sulla scena petrolifera dopo lo shale oil”, è quello che viene dallo stesso governo cinese che a quel fenomeno ha dato vita. E cioè la campagna contro l'evasione fiscale, che tra gli indipendenti potrebbe rivelarsi assai diffusa: il 23 agosto scorso la National Development and Reform Commission che avvertito che il governo avrebbe ritirato la licenza e revocato le quote di import in caso di evasione fiscale. I contribuenti cinesi vogliono anche loro una fetta della nuova ricchezza conquistata dai petrolieri emergenti. Molti a Shandong tremano.