Mario Draghi rilancia, i mercati non gli credono

La Banca centrale europea annuncia nuove misure per rafforzare crescita e inflazione. Quantitative easing fino a marzo del 2017, acquisti anche di debiti regionali e di enti locali. Le Borse a caldo reagiscono male, ma per tirare le somme bisogna guardare cosa succederà al petrolio e agli Stati Uniti

Mario Draghi ha fatto la prima mossa. Giovedì pomeriggio il presidente della Banca centrale europea ha annunciato che il cosiddetto Quantitative easing verrà prolungato: la scadenza non sarà più a fine settembre, come detto nove mesi fa, ma a marzo 2017 o oltre, se necessario. Una strategia che dovrebbe aiutare l'economia dell'Eurozona rafforzando la ripartenza del credito e l'inflazione. Per capire se il rilancio potrà portare i frutti sperati bisogna però aspettare almeno qualche giorno, quando arriveranno due decisioni altrettanto cruciali per l'economia mondiale.

Domani, 4 dicembre, l'Opec si riunirà a Vienna per decidere se modificare la quota di produzione di petrolio, variabile che potrebbe modificare gli scenari dei prezzi della principale commodity e la disponibilità di cassa di parecchi Paesi. Il 16 dicembre sarà la Fed ad annunciare eventuali modifiche della sua politica monetaria, con possibili conseguenze rilevanti per il dollaro, tuttora la principale moneta di scambio sui mercati.

Nella riunione di Francoforte, Draghi ha annunciato alcune novità sulla politica monetaria. Decisioni prese «non all'unanimità», ha precisato il banchiere, «ma a larga maggioranza» all'interno del consiglio della Bce. La prima è stata quella sui tassi di deposito, cioè gli interessi pagati alle banche che parcheggiano quattrini nei forzieri di Francoforte.

Negli ultimi mesi, per spingere gli istituti a prestare quei soldi invece che a lasciarli fermi, Draghi aveva già portato i tassi in negativo, costringendo di fatto a pagare per farsi custodire la liquidità. A poco è servito, evidentemente: nei forzieri della Bce ci sono ancora circa 160 miliardi di euro fermi. La modifica appena resa nota prevede che da - 0,2 per cento, i tassi sui depositi passino a – 0,3 per cento.

PERICOLO DEFLAZIONE
La notizia che gli investitori aspettavano con più ansia era però quella sul Quantitative easing. Iniziato a marzo di quest'anno, dopo mesi di polemiche tra chi era d'accordo (Paesi in crisi economica) e chi no (Germania e altri Stati del Nord Europa), il Qe consiste nell'acquisto da parte della Bce di titoli degli Stati dell'Eurozona e obbligazioni di istituzioni e agenzie europee. Il bazooka, come è stato ribattezzato, ha fatto calare il temuto spread. Ma non ha colpito l'obiettivo ufficiale, che è un altro: riportare nel medio termine l'inflazione vicina al 2 per cento, così ripete da mesi la Bce. Com'è andata?

Il basso prezzo del petrolio e il rallentamento di alcune economie emergenti, prima fra tutte quella cinese, hanno portato in dote un misero 0,1 per cento a novembre. La stessa Banca centrale ha rivisto le stime: l'inflazione per l'anno prossimo è prevista all'1 per cento, lontanissima dall'obiettivo del 2. Da qui l'estensione del Qe, che proseguirà fino a marzo del 2017. E un ampliamento dei titoli acquistabili, includendo fra questi anche i debiti emessi da enti locali e regionali. Funzionerà? A chi gliel'ha chiesto, in conferenza stampa, Draghi ha risposto: «Queste misure hanno bisogno di tempo per essere apprezzate a pieno. Vedremo...».

Ai mercati finanziari non è bastato. Dopo la riunione a Francoforte, i listini europei – fino a quel momento positivi – hanno virato verso il basso, le Borse americane hanno aperto in rosso e l'euro si è rafforzato sul dollaro arrivando fino a quota 1,09. Gli investitori si aspettavano misure più aggressive, come l'aumento del ritmo mensile degli acquisti di bond da parte della Bce, attualmente fissato a 60 miliardi.

Si vedrà, appunto, se il banchiere centrale europeo ha ragione. Di certo, come lui stesso ha chiarito giovedì pomeriggio, le azioni finora messe in campo per dare una scossa all'inflazione sono state contrastate da altre variabili. Una è rappresentata dal rallentamento della Cina e di altri Paesi emergenti come Russia e Brasile, le cui crisi pesano sui prezzi del commercio mondiale. L'altro fattore è il petrolio, che viaggia intorno ai 40 dollari al barile, quasi la metà rispetto a marzo, quando la Bce inaugurò il Qe.

SAUDITI E AMERICANI
Per questo sarà importante la riunione dell'Opec del 4 dicembre: perché un taglio delle forniture da parte dei grandi Paesi produttori, Arabia Saudita in testa, farebbe risalire il prezzo del barile e così l'inflazione mondiale, offrendo un aiuto indiretto a Draghi. L'altra sponda potrebbero arrivare il 16 dicembre dagli Stati Uniti, quando la Fed renderà note le sue decisioni di politica monetaria.

Se dopo anni di tassi a zero la governatrice Janet Yellen, come previsto da molti analisti, dovesse decidere di alzare il costo del denaro, sull'inflazione europea potrebbero non esserci effetti benefici, e nemmeno sui Paesi emergenti visto che molti di questi sono indebitati in dollari e dovrebbero sostenere costi più alti per ripagarli.

Un vantaggio rilevante però potrebbe arrivare: se a tassi americani più bassi corrispondesse un rafforzamento del dollaro sull'euro, l'export made in Ue diventerebbe più economico. I prezzi non salirebbero, ma le vendite delle aziende europee sì. Non sembra un caso che, mentre annunciava stime più basse del previsto sull'inflazione, la Bce abbia rivisto al rialzo quelle per il Pil dell'Eurozona.

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