Il disimpegno degli Usa, il ruolo di Putin, le svolte di Erdogan: la lotta al terrorismo deve fare i conti con nuovi equilibri geopolitici

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Si dice di Recep Tayyip Erdogan: il Sultano. Di Vladimir Putin: lo Zar. Di Abu Bakr al-Baghdadi: il Califfo, per fortuna con la preziosa aggiunta “sedicente” o “autoproclamato”. Di Bashar al Assad: il Dittatore. Di Abdal Fattah al Sisi: il Golpista (naturalmente). Si fronteggiano in Medio Oriente, direttamente o per interposta influenza, leader che occhieggiano al dominio assoluto, definiti con appellativi che ne denunciano la postura, retaggi di ere di tiranni e sudditi. Se il tema della politica è il potere personale, la disinvoltura è massima, la lotta è senza esclusione di colpi. E non esistono le regole.

Erdogan, nella sua ambizione neo-ottomana, voleva che Istanbul tornasse faro dell’intera regione ed essere incoronato capo del mondo musulmano sunnita. Per questo aveva benevolmente accompagnato la crescita dello Stato islamico in funzione anti-Assad (alauita, dunque sciita). Salvo rendersi conto di qualche errore di calcolo strategico: a) un Sultano è incompatibile con un Califfo; b) con un Imperatore riluttante quale Barack Obama e uno Zar ambizioso quale Vladimir Putin, alleato di Assad, è l’asse sciita il cavallo vincente su cui puntare. Un cambio di sella veloce et voilà, ecco la fantasmagorica piroetta, il cui prezzo sono le vendette come il massacro di Capodanno nel night club “Reina”.
Intervista
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10/1/2017

La convivenza nell’area di tanti “uomini forti” e di alleanze a geometria variabile è la conseguenza del disimpegno di Washington che ha creato un vuoto complicato da riempire. Obama lo aveva annunciato, coprendolo con la buona ragione del ritiro dall’Iraq dopo la sciagurata guerra di Bush. Era stato trattenuto per i capelli per l’esplosione delle “primavere arabe” e della guerra in Siria, dovendo rispettare il ruolo di superpotenza. Lo aveva fatto suo malgrado, ponendo “linee rosse” al regime di Assad oltrepassate le quali non è stato in grado di far seguire i fatti alle minacce, sottovalutando la crescita dello Stato islamico nel timore di un nuovo pantano per le sue truppe. Errori figli di alcune ragioni interne: il popolo Usa è stanco della guerra, il Medio Oriente non è più strategico perché l’America ha raggiunto l’autosufficienza energetica.

Tutto lascia credere che con Donald Trump, ormai prossimo a insediarsi, la Casa Bianca accentuerà fino all’estremo l’atteggiamento di abbandono dell’area più calda del pianeta. Il miliardario ha già fatto sapere che i soldati in giro per il globo costano troppo e i fondi statali devono semmai servire per aumentare la sicurezza interna. Forse addirittura più che dopo l’11 settembre, gli attentati endemici di fondamentalisti islamici hanno prodotto negli americani la percezione dell’insicurezza sul proprio suolo.

Il presidente eletto proclama una vicinanza a Putin che è contemporaneamente rispetto del tycoon per la muscolarità dello Zar e calcolo dei benefici economici derivanti da una suddivisione di compiti come ai bei tempi andati della Guerra Fredda. Basta aprire la carta geografica per misurare interessi e intenzioni. L’Ucraina? Non è problema di Washington. L’Europa? Neppure. Il Medio Oriente? Andiamocene prima di restare ulteriormente scottati.

Proprio quanto il Cremlino desiderava, per tornare a sua volta a sentirsi potenza. Non si umilia troppo a lungo la Grande Russia. Putin ha solleticato la pancia nazionalista e l’orgoglio di un popolo in cerca di riscatto e lo fa tornare protagonista nei luoghi abbandonati dopo l’implosione dell’Impero sovietico. Uno di questo luoghi, una sorta di sogno ancestrale, è il mare caldo, il Mediterraneo. Nella caotica contesa Mosca può contare su vecchi alleati come l’Iran (rimesso in gioco proprio da Obama con l’accordo sul nucleare) e la Siria, appunto l’asse sciita. Ed Erdogan, nonostante la Turchia faccia parte della Nato, ha annusato il cambio del vento, si è presentato da Putin cospargendosi il capo di cenere per l’abbattimento dell’aereo russo che aveva portato i due Paesi sull’orlo di un confronto militare, ha offerto il suo esercito in appoggio chiedendo in cambio solo carta bianca contro i curdi, il suo spauracchio interno. Perché per un apprendista Sultano neo-ottomano sarebbe un colpo fatale all’autostima vedere decurtato il territorio causa nascita di uno Stato curdo tra Turchia, Siria, Iraq.

L’intesa Mosca-Ankara è arrivata al punto da produrre un cessate il fuoco in Siria e l’annuncio di una conferenza a metà gennaio in Kazakistan senza gli Stati Uniti. Un inedito su cui troppo poco si è sinora riflettuto. E che lascia lo spazio a una domanda: cosa ci guadagna l’America nel permettere tutta questa libertà di manovra allo zar Vladimir? La risposta è semplice: la nascita di un dualismo alternativo a quello Usa-Cina che sembrava ineluttabile. Un nuovo G2 Usa-Russia visto assai più favorevolmente da Donald Trump che non ha mai mancato di sottolineare la sua avversione verso Pechino. Dovuta a motivi economici. Ha vinto le elezioni coi voti del ceto medio bianco impoverito. È vero che la disoccupazione praticamente non esiste, però sono diminuiti i salari a causa della concorrenza sul mercato globale dei prodotti made in Cina dove il costo del lavoro è infinitamente più basso. Dunque, per un uomo che arriva, come si sarebbe detto da noi per Berlusconi, dalla “trincea del lavoro” altre sono le priorità rispetto a una generica, prestigiosa, ma infruttuosa area d’influenza geostrategica.

La Cina non ha mai puntato a un’egemonia politica, preferendo una colonizzazione economica del mondo. Dunque, in prospettiva, è il vero nemico. Possibilmente da bloccare. Nel momento di massimo isolamento di Mosca per la guerra in Ucraina, Putin aveva cercato, era il 2014, un’alleanza orientale con un accordo di fornitura trentennale di gas a Pechino per un valore complessivo di 400 miliardi di dollari. Era il surrogato all’Unione economica eurasiatica che, senza Kiev, aveva perduto di significato, e l’inizio di un possibile legame tra due Paesi eredi di due comunismi e ormai campioni di due capitalismi di Stato seppure molto diversi.

Ma la storia viaggia ormai a velocità supersonica e progetti che sembrano di lunga durata mutano nello spazio di un mattino. Soprattutto se le elezioni democratiche cambiano radicalmente le prospettive col mutare dei governi. Non esiste più, nemmeno negli Stati Uniti, la cortesia istituzionale che impone a schieramenti avversari di procedere secondo linee condivise su temi di interesse nazionale. Sappiamo che Trump rinnegherà in toto la politica di Obama. Abbiamo visto come Obama, in un istinto di perpetuazione del proprio credo, abbia voluto mettere i bastoni tra le ruote del successore astenendosi all’Onu sul tema delle colonie di Israele ed espellendo 35 diplomatici russi accusati di ingerenza nelle elezioni presidenziali del novembre scorso. Atti di inusitata scortesia che saranno corretti dalla nuova amministrazione e che dimostrano la volatilità dei regimi democratici, costretti a fare i conti con elettori che puniscono di regola chi detiene il potere.

Anche per questo, e torniamo all’inizio, hanno buon gioco in una fetta di mondo che la democrazia non l’ha mai conosciuta, personaggi che reclamano per sé un potere pieno. E fanno del Medio Oriente la cartina di tornasole e la palestra per i nuovi equilibri. Sembrano tornare teorie assolutiste, alcune ereditate dal passato, che tendono ad affascinare popoli in cerca di vendetta per supposti torti subiti dalla storia. È così per i sunniti dopo il decennio sciita favorito dalla guerra di Bush contro Saddam Hussein. Così per i turchi nostalgici di un Impero morto un secolo fa. Così per i russi a cui un moderno zar propone un riscatto. Però l’area è troppo stretta per tanti appetiti. E, in mancanza del re della giungla, il leone americano (per dirla col linguaggio dei neoconservatori di Washington) fattosi latitante, è lunga la strada verso un accettabile nuovo ordine.