L'esperta di relazioni internazionali Jana J. Jabbour parla con l'Espresso della situazione politica turca e spiega perché, con la crisi dei migranti e l'impennata degli attacchi terroristici, l'Europa e Istanbul non possono che scegliere la via del dialogo

Il ruolo della Turchia sullo scacchiere internazionale, le sfide di Ankara sul piano politico ed economico, la morsa del terrorismo curdo e dell’estremismo islamico. A più di dieci anni dalla sua scalata al potere, Recep Tayyip Erdogan è ancora il leader incontrastato della repubblica erede del regno della sublime porta. Ma le condizioni, esterne ed interne, sono completamente mutate: perché la Turchia è continuo obiettivo di attacchi terroristici, cos’è cambiato dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016 e quali saranno le relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti di Trump nel 2017? Per rispondere a tutte queste domande L’Espresso si è rivolto a una profonda conoscitrice delle dinamiche turche e, allo stesso tempo, una figura emergente nell’ambito dell’analisi geopolitica: la libanese Jana J. Jabbour, che insegna a Science Po Paris e all’Università Saint-Joseph di Beirut, docente all’European InterUniversity Centre for Human Rights and Democratisation del Lido di Venezia.

Scenari
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Professoressa Jabbour, come potrebbe disegnare l’attuale situazione politica in Turchia, dopo oltre dieci anni di “governo” Erdogan e a pochi mesi dal fallito colpo di stato di luglio?
«Il partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) è al Governo dal 2002 e Erdogan governa il Paese dal 2003, prima come Primo Ministro, dal 2014 come Presidente. La continuità e la forza di Erdogan sono spiegabili principalmente da fattori politici ed economici. Da una parte gli obiettivi economici raggiunti negli anni 2000 - la crescita del Prodotto interno lordo, i progetti di urbanizzazione, l’ammodernamento delle infrastrutture - e l’adozione di un’agenda economica neoliberista combinata a un’efficiente politica di ridistribuzione che ha permesso un miglioramento degli standard di vita di molti turchi e un conseguente aumento della popolarità dell’Akp. Dall’altra parte, l’assenza di una forte e unita opposizione e la debolezza delle istituzioni militari hanno contribuito alla scomparsa di una qualsiasi vera alternativa di governo. A partire dal 2011 il partito di Erdogan è diventato così forte che ha cominciato a eliminare anche i suoi precedenti alleati, come il movimento di Fethullah Gülen».

Si dice che sia stato proprio Gülen l’architetto del fallito colpo di stato di luglio.
«Il colpo di stato del 15 luglio 2016 è stata la reazione di alcuni membri del movimento di Gülen e di alcuni generali kemalisti allo strapotere dell’Akp e alla esclusione dalle posizioni di potere di chiunque non sia del partito. Dopo il fallito colpo di stato, e in seguito alla caccia alle streghe che il governo dell’Akp sta portando avanti contro i golpisti, la Turchia è diventata un paese altamente polarizzato. La società è fratturata e regna un clima di paura. Parallelamente a ciò, la Turchia deve affrontare oggi minacce alla sicurezza senza precedenti. Il terrorismo dell’Isis e il ritorno del Pkk alla lotta armata stanno immergendo il paese in un profondo clima di violenza. La sfida principale è come combattere il terrorismo senza rompere l’equilibrio tra libertà e sicurezza: la libertà e i diritti personali dei cittadini non dovrebbero essere sacrificati per il bene della sicurezza e con la scusa di un continuo “stato di emergenza”».

Ma nel 2016 la Turchia è stata obiettivo di numerosi attacchi terroristici. Perché proprio la Turchia e chi c’è dietro questi attacchi?
«Nel 2016, la Turchia è stata il bersaglio di 15 attacchi terroristici che hanno ucciso e ferito più di mille persone. Nove di questi attacchi sono stati rivendicati dal Pkk, quattro dall’Isis e due sono rimasti anonimi, nessuno li ha rivendicati. Questi attacchi sono la conseguenza diretta del coinvolgimento di Ankara nella crisi siriana. All’inizio della guerra in Siria, la Turchia ha cercato di usare l’Isis come uno strumento per rovesciare al-Assad e per la lotta contro i curdi. Dopo poco tempo, però, il Daesh si è rivoltato contro la Turchia e ha iniziato a porre reali minacce alla sicurezza del paese: nel mese di gennaio 2014, il movimento ha preso 49 diplomatici turchi come ostaggi a Mosul e, da quel giorno, ha cominciato a orchestrare diversi attacchi terroristi in territorio turco. Questi attacchi si sono intensificati a partire dal 2015, a causa dell’impegno della Turchia nella coalizione internazionale contro il califfato. Inoltre, la crisi siriana ha rafforzato i curdi e ha contribuito al ritorno del Pkk alla lotta armata contro lo Stato. I progressi che i curdi siriani hanno raggiunto sul campo hanno dato speranza ai curdi turchi e li hanno incoraggiati a rinnovare la guerra contro Ankara. In particolare, il Pkk ha visto nella situazione caotica della Siria e dell’intera regione una “finestra di opportunità” per fare progressi sul piano interno e, a lungo termine, per dichiarare una zona autonoma curda. In questo senso l’instabilità e il caos in Siria hanno creato un “effetto boomerang” in Turchia favorendo la creazione di minacce alla sicurezza per il paese».

Qual è, quindi, il ruolo della Turchia nella crisi siriana e quali i rapporti con Assad?
«Negli ultimi sei anni l’obiettivo principale della Turchia in Siria è stato quello di rovesciare Bashar al-Assad. Tuttavia il rafforzarsi dei curdi in Siria, e il loro rapido avanzare sul terreno, ha portato Ankara a rivedere le sue priorità. Per Erdogan l’espansionismo curdo è diventato una minaccia maggiore della sopravvivenza di al-Assad e questo ha portato a un riavvicinamento con il Presidente siriano che oggi è visto come un piccolo prezzo da pagare per contenere l’istituzione di una zona autonoma curda in Siria. Dalla metà del 2016 il governo turco ha dato il via a una “de-escalation” della sua retorica contro al-Assad, e ha aperto un negoziato con il suo regime attraverso una mediazione russo-iraniana. Oggi la Turchia continua ad essere uno degli attori principali nella crisi siriana. Attraverso la leva che ha su gruppi di opposizione e attraverso la sua presenza militare sul terreno nella Siria settentrionale (Operazione Scudo dell’Eufrate), la Turchia è un attore chiave: nessuna soluzione può essere trovata per la crisi siriana senza il coinvolgimento di Ankara».

Com’è la situazione economica interna, il Pil è ancora in crescita?
«L’economia turca è fortemente influenzata dagli attacchi terroristici e dal clima di insicurezza che ne consegue. La lira turca si è svalutata e gli investimenti diretti esteri sono in fuga dal Paese. Questo non solo minaccia il tenore di vita dei turchi, ma minaccia anche il potere di Erdogan e dell’Akp. Il presidente ha recentemente suggerito che Turchia, Russia e Iran dovrebbero usare le loro monete nazionali nei loro rapporti commerciali, al fine di potenziare le loro economie e rivalutare le loro valute».

Cosa pensa del rapporto tra l’Ue e la Turchia, c’è qualche realistica possibilità per Ankara di diventare membro dell’Unione?
«Il problema, oggi, è che vi è una diffidenza reciproca e una profonda crisi di fiducia tra i paesi dell’Unione e la Turchia. La verità è che l’Europa non ha mai voluto integrare la Turchia come membro a pieno titolo ma non ha neanche mai avuto il coraggio di ammetterlo apertamente. Il costante rigetto di Ankara al di fuori dei confini dell’Unione europea ha avuto conseguenze molto negative: a livello popolare ha contribuito ad un aumento dell’euroscetticismo tra i turchi: molti turchi, infatti, denunciano l'“ipocrisia” e il “doppio pesismo” di Bruxelles che da un lato ha accettato di integrare i paesi dell’Europa orientale, ma dall’altro ha rifiutato di integrare la Turchia. A livello statale, invece, questo atteggiamento ha spinto il governo dell’Akp a perdere fiducia nelle istituzioni europee e a cercare alternative all’Occidente. Questa situazione porta a una doppia sconfitta: se l’Ue perde la Turchia perderà un partner importante nella lotta contro il terrorismo e sulla crisi dei migranti. Se la Turchia perde il suo ancoraggio all’Ue potrebbe andare alla deriva verso un autoritarismo sempre più accentuato, e potrebbe anche perdere il suo “soft power” e la sua attrattiva verso il Medio Oriente. Occorre un dialogo aperto e onesto tra le due parti al fine di ripristinare vere relazioni e di iniziare una nuova forma di partnership strategica».

In che modo l’elezione di Donald Trump potrà incidere sulle relazioni turco-americane?
«A seguito del colpo di Stato in Turchia le relazioni turco-americane hanno conosciuto un periodo di forte tensione. In primo luogo la reazione lenta degli Stati Uniti nel condannare il tentativo di colpo di stato è stata percepita dal governo dell’Akp come un tradimento. In secondo luogo, a seguito del colpo di stato, Ankara ha chiesto l’estradizione di Fethullah Gülen, l’imam che si è auto-esiliato in Pennsylvania dal 1999, e che le autorità turche accusano di aver orchestrato il fallito golpe. Il rifiuto all’estradizione da parte dell’amministrazione Obama ha creato una grave crisi di fiducia tra Ankara e Washington. Infine, il sostegno dell’amministrazione Obama per i curdi in Siria è percepito molto negativamente in Turchia.

L’elezione di Donald Trump è un’opportunità per un miglioramento delle relazioni turco-americane. Da un lato, a differenza di Hillary Clinton, Donald Trump è favorevole all’estradizione di Gülen. Dall’altro, Trump ha annunciato che collaborerà con “leader forti” come Putin e Erdogan e che non interferirà nel modo in cui questi gestiscono i loro affari interni. Trump, inoltre, prevede di dare un ruolo maggiore per la Turchia in Siria: alla ricerca di una via d’uscita per l’America dal Medio Oriente, Trump subappalterà la risoluzione della crisi in Medio Oriente a potenze regionali come Turchia e Russia».