L’ultimo film di Asghar Farhadi è una parabola sui rischi dell’intransigenza e della misericordia. Dove Farhadi dimostra di essere innanzitutto un grande sceneggiatore

Ssembra quasi un remake rovesciato del suo film più celebre, “Una separazione” (2011), Orso d’oro a Berlino, Oscar per il miglior film straniero e notevole successo in tutto il mondo (perfino in Italia) il nuovo film di Asghar Farhadi. Lì un borghese che si confrontava con l’intransigenza di una famiglia di popolani religiosi, che lo accusavano di omicidio.

Qui, invece, è il protagonista, insegnante e attore, a rischiare di causare disgrazie per intransigenza e fame di vendetta. Emad e la moglie Rana, dopo il crollo del palazzo in cui vivono, si trasferiscono provvisoriamente in un appartamento in affitto. Ma non sanno che l’ultima inquilina era una prostituta, e un giorno Rana viene aggredita da uno sconosciuto: si tratta di un cliente della prostituta, convinto di trovarla lì. Rana non l’ha visto in faccia. Emad entra dunque in una spirale sempre più rigida, ossessiva, fondamentalista verrebbe da dire, svelando un lato quasi disumano.

Ancora una volta, siamo di fronte a una parabola sulla complessità delle vite umane, sui rischi dell’intransigenza e sulla misericordia: un film a suo modo politico, una messa in discussione non esplicita ma profonda, etica, dell’ideologia del regime iraniano. La peculiarità di Farhadi è di sciogliere l’apologo in una dimensione quotidiana di realismo assoluto. La storia, ancora una volta, parte da lontano, e si dirama in piccoli episodi quotidiani che alla fine, indirettamente, arricchiranno l’insieme.

Particolarmente riusciti i momenti di vita scolastica di Emad; più insistiti, invece, i riferimenti a “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, che valgono come metafora della recita sociale e delle sue miserie. Si entra nella storia in maniera graduale, quasi inavvertita, ma con un dosaggio sapiente di colpi di scena. Farhadi è anzitutto un grande sceneggiatore; è anzi curioso che proprio da un cinema come quello iraniano, noto ai tempi di Kiarostami per la sua apertura documentaristica al reale, venga una lezione di scrittura da fare invidia a un thriller americano. La sceneggiatura, infatti, è stata giustamente premiata all’ultimo festival di Cannes, insieme all’interpretazione maschile, anch’essa mirabile, di Shahab Hosseini.