Si parla in decine di paesi. Ma per tutti è una lingua straniera. Il libro dell'Espresso invita a farsi affascinare da questo idioma, chiave portentosa per capire non solo il nostro mondo e il passato, ma anche un po’ se stessi
A vent’anni ho seguito dei corsi di arabo all’università. Non ho imparato a parlarlo, ma ho la capacità di comprendere a volte delle frasi di senso compiuto (se conosco il vocabolario di quella frase) e di leggere abbastanza bene se il testo è vocalizzato. Ma poi a vent’anni hai mille stimoli e un’onda mi ha portato verso l’America Latina, lasciando dietro un po’ tutto, arabo compreso. Da quell’abbandono, avvenuto un po’ per pigrizia e un po’ perché avevo altre urgenze, mi è rimasta però la nostalgia dell’arabo, che è uno dei miei più grandi rimpianti. E leggendo il libro fresco ed intelligente di Angiola Codacci-Pisanelli il mio rimpianto è un po’ aumentato. Angiola in ogni riga da lei scritta ti fa venire voglia di correre ad iscriverti ad un corso di arabo. E non perché la lingua sia utile (lo è) o sia diffusa (lo è). Ma perché di fatto è una chiave portentosa per capire non solo il nostro mondo e il passato, ma anche un po’ se stessi.
L’arabo classico, quello che si studia nei corsi, il “luqa-t-al fusha”, è una lingua straniera per tutti. Quasi un rompicapo. Non perché sia una lingua difficile, ma perché è il prodotto di una codificazione fatta a tavolino. Anche per gli arabi l’arabo classico è una lingua straniera. Nessuno usa quelle declinazioni, quei plurali complicatissimi: e anche il famigerato duale insomma non è che sia tanto di moda. Gli arabi, dal Marocco alla Siria, parlano i loro arabi - erroneamente, secondo me, chiamati dialetti - ma che sono vere e proprie lingue. Infatti chi studia arabo capisce il dialetto siro-palestinese perché molto simile al classico, capisce l’egiziano perché molti film provengono dall’Egitto, ma a stento si raccapezza in Marocco. Sono lingue nate da una grande lingua Madre. E lo studente di arabo - la studentessa Angiola, nel nostro caso - deve nuotare in un mare di incertezze che sono proprie anche del nativo di quella lingua.
Io dell’arabo ricordo soprattutto la calma interiore che mi donava spulciare il vocabolario. Era già un lavoro, trovare una parola nel vocabolario. Arrivare alla radice, togliere il superfluo, capire che in una radice c’è un significato e anche il suo contrario. L’arabo ti porta a riflettere sulle parole. A dare peso. A non dare nulla per scontato.
Angiola lo sa. E per questo ci porta con leggerezza in un mondo che unisce storia, filosofia, voglia di stupire. Buona lettura e, per chi lo farà, buono studio dell’arabo classico.