«Occorrevano documenti sulla  casa di Montecarlo per incastrare Fini. E bisognava pagarli. Berlusconi  mi diede 500 mila euro in contanti». Parla l'ex direttore dell'Avanti

Valter Lavitola
I documenti della casa di Montecarlo , quella comprata dal cognato di Gianfranco Fini, il signor Giancarlo Tulliani, me li sono procurati io. Li ho ottenuti direttamente da funzionari governativi dell’isola di Santa Lucia. Ovviamente hanno voluto dei soldi per darmeli. Molti soldi. Tutta l’operazione è stata finanziata da Silvio Berlusconi. È lui che mi ha consegnato a Palazzo Grazioli 500-600 mila euro in contanti , che io ho fatto portare ai Caraibi con un aereo partito da Ciampino. Era l’estate del 2010. Tornassi indietro non rifarei quello che ho fatto».

Valter Lavitola, ex direttore dell’Avanti, un tempo vicinissimo a Bettino Craxi, diventato dieci anni fa faccendiere di successo e compagno di avventure del capo del centro destra italiano, è seduto sul divano del suo piccolo appartamento a Roma, nel quartiere di Monteverde. Un piano terra senza pretese, luci fredde che illuminano una camera addobbata con i suoi trofei di caccia. Dopo avere aperto la porta offre un caffè, e comincia ad andare avanti e indietro tra salotto e cucinino zoppicando un po’: scivolando s’è rotto un femore, e il recupero è più lento del previsto. «Sono caduto poco dopo che ero uscito di prigione. Sono stato dentro perché condannato in via definitiva per le irregolarità nella gestione dei fondi pubblici dell’Avanti e per un tentativo di estorsione nei confronti di Berlusconi. La decisione della Cassazione mi brucia ancora: sono stato punito solo perché il dottore non ha confermato quanto aveva già spiegato in un altro procedimento archiviato, e cioè che io non avevo mai fatto su di lui alcun tipo di pressione». Ora che la storia della compravendita dei senatori è finita in prescrizione, su Lavitola restano aperte varie inchieste penali, tra cui una a Napoli per una presunta corruzione internazionale e un’altra, delicatissima, a Bari. «Qui, ancora una volta, sono imputato insieme a Berlusconi: avremmo indotto Giampaolo Tarantini a mentire ai pm che indagavano sulla vicenda delle escort».

I magistrati hanno chiesto il processo pochi giorni fa.
«Sì, ci incolpano entrambi di aver dato a Giampaolo Tarantini denaro per indurlo a mentire davanti ai magistrati. Di averlo “comprato” affinché affermasse che Berlusconi non sapesse che le ragazze portate da Giampy fossero escort. Ma è un’accusa inverosimile. Prima hanno detto che io avrei ricompensato Tarantini nel 2009, ma al tempo io nemmeno lo conoscevo. Poi hanno deciso di modificare l’imputazione, affermando che l’avrei indotto a mentire nel settembre del 2011. Quando lo hanno arrestato e io, però, ero già latitante. Come facevo io a sapere che sarebbe stato interrogato mentre ero all’estero? Stiamo parlando di un reato a consumazione istantanea. Inoltre c’è il mistero di tre intercettazioni di cui esiste il numero di fonia, ma di cui gli audio sono introvabili. Fossero stati ascoltati, ne sono sicuro, avrebbero eliminato subito ogni dubbio e chiuso il procedimento».

È un fatto che lei per Berlusconi è stato una vera iattura. Ha persino provato ad estorcergli milioni minacciandolo di svelare segreti sul suo conto. Come gli incontri con escort in Sudamerica.
«Voglio bene al dottore, non scherziamo. Tant’è vero che sono stato ad Arcore appena rimesso in libertà. Da fine dicembre 2016 fino al 6 febbraio 2017 ho alloggiato in un albergo vicino a villa San Martino. Mi ha invitato tante volte a chiacchierare con lui, mi ha consigliato di fare un accurato check up medico, abbiamo anche parlato di lavoro, gli ho dato consigli. Poi Niccolò Ghedini mi ha chiesto di andar via, spiegandomi che la mia presenza lì era fuori luogo. Lo capisco, e non lo biasimo. Anche perché Ghedini è stato uno dei pochi che mi è stato di conforto».

Capisco, sia lei che Ghedini avete un atteggiamento protettivo nei confronti del leader di Forza Italia...Di che avete parlato con Berlusconi?
«Fatti nostri».

E perché adesso, dopo sette anni, vuole finalmente raccontare com’è andata la storia della casa di Fini?
«Sto lavorando in giro, noto solidarietà nei miei confronti, credo che molti mi ritengono affidabile anche perché non ho mai parlato. Mi sono fatto quasi cinque anni di carcere senza aprire bocca. Non sono certo un delatore. Se ho deciso di dire la verità solo adesso dipende dal fatto che Fini rischia di finire a processo per riciclaggio per colpa di Tulliani (arrestato qualche giorno fa a Dubai, ndr).

L’ex leader di Alleanza nazionale si è definito lui stesso “un coglione”, e non posso dargli torto. Ma, essendo io quello che ha gestito parte della faccenda, le posso assicurare che lui davvero sapeva poco o nulla. I Tulliani e altri suoi amici, come l’ex deputato Amedeo Laboccetta, lo hanno preso per i fondelli. Sono loro che hanno gestito l’affare dell’appartamento di Montecarlo, comprato con i soldi dei Corallo (i re delle slot machine, indagati per concorso in riciclaggio insieme a Fini e ai Tulliani, ndr). Ecco, mi sento in colpa. È vero, volevo far dimettere Fini. Ma non pensavo sarebbe successo tutto quello che è poi accaduto. Lui con il riciclaggio non c’entra nulla. Per questo voglio raccontare tutti i dettagli. È una vicenda della quale mi sono pentito. Non avrei mai pensato che finisse così».

Parta dall’inizio.
«Tutto comincia grazie alla mia amicizia con l’allora presidente di Panama, Ricardo Martinelli. Lo conoscevo prima della sua scalata al potere: lui aveva supermercati a cui vendevo i prodotti pescati con le mie barche in Brasile. Quando uscirono sul Giornale le prime notizie sulla casa di Montecarlo e sulle società misteriose dell’isola caraibica di Santa Lucia che ne avevano rilevato la proprietà da An, chiesi aiuto a Martinelli. Lui mi disse che mi avrebbe aiutato con le autorità di Santa Lucia a far uscire le carte, a patto che Berlusconi - allora premier - lo avesse aiutato vendendogli attrezzatura militare di Finmeccanica per la lotta al narcotraffico».

Che interesse aveva Martinelli a fare la guerra ai narcos?
«Nessuno in particolare. Voleva avere buoni rapporti con gli americani, e investimenti in elicotteri, motovedette e radar gli sembravano un buon biglietto da visita nei confronti dell’amministrazione Usa. Aveva qualche conflitto con l’ambasciatore. Me lo confermò un capocentro dei servizi inglesi che conoscevo bene, e che mi diede una mano in tutta l’operazione. Credo che i nostri radar, una volta installati, avrebbero funzionato bene contro i narcos. So che qualche tempo dopo i cartelli colombiani hanno cercato di bloccare il monitoraggio delle loro barche investendo soldi per boicottare il progetto. Credo ci sia un’inchiesta del dipartimento antidroga degli Usa su questa faccenda».

Berlusconi che disse della sua idea?
«Che per incastrare Fini andava bene questo e altro: sennò che gli sarebbe importato di Panama? Se non ci fosse il Canale il Cavaliere non avrebbe saputo nemmeno dell’esistenza di uno stato così piccolo. Comunque, inizialmente né lui né Niccolo Ghedini credettero davvero che io potessi arrivare a Martinelli e al governo di Santa Lucia. Nemmeno io fossi un millantatore... Gli dissi che, avessi raggiunto l’obiettivo, lui mi avrebbe dovuto aiutare con L’Avanti, che stava affondando in mezzo a un mare di debiti. Accettò la proposta».

Quindi lei come si mosse?
«Avuto il suo beneplacet tornai a Panama. Feci parlare al telefono Martinelli e Berlusconi per un primo contatto. Ricardo capì che i miei rapporti con il premier italiano erano reali, e si mise a mia disposizione. Mi procurò un aereo privato con cui andai, per la prima volta, da Panama a Santa Lucia. Non partii da solo, ma con un agente inglese. Fu lui a portarmi da un funzionario del governo dell’isola, dicendomi che ci avrebbe potuto dare una mano. O meglio: per 100 mila dollari ci avrebbe consegnato la copia di una email che avrebbe provato quello che tutti, in Italia, si stavano chiedendo. Ossia se la casa di Montecarlo fosse stata effettivamente comprata dal cognato di Fini, Giancarlo Tulliani. La mail era stata mandata ad agosto 2010 dal broker James Walfenzao, un collaboratore dei Corallo, ai due fiduciari dei fondi segreti Printemps e Timara proprietari dell’appartamento. Nell’informativa Walfenzao parlava di un coinvolgimento diretto di Tulliani».

Ricordo la mail. Lei la pubblicò in esclusiva sull’Avanti a ottobre del 2010. Diede davvero i centomila dollari per averla?
«Non avevo contanti. Così dovetti tornare indietro a Panama, e mi feci prestare circa 300 mila dollari in contanti da un uomo vicinissimo a Martinelli (arrestato cinque mesi fa in Florida con pesanti accuse di spionaggio, ndr). Il giorno stesso riprendo un altro volo per Santa Lucia. Consegno i centomila, afferro la copia della mail, e metto i duecentomila che mi restano in una cassetta di sicurezza. Dissi a Berlusconi che eravamo a cavallo, ma lui mi spiegò che con quel solo documento non inchiodavamo nessuno. Che ci voleva qualcosa di più: le carte originali delle società proprietarie della casa di Montecarlo».

Comprò anche quelle?
«Ci provammo, ma era impossibile. Per il semplice fatto che non esistevano. Per essere più precisi, non riuscimmo a convincere il concessionario che gestiva le società offshore a consegnarcele: se ci avesse girato documenti riservati avrebbe creato a sé stesso un danno d’immagine colossale. Al mio amico inglese, così, venne una buona idea: quella di far scrivere una informativa confidenziale destinata al presidente dell’isola e firmata da un ministro che facesse definitiva chiarezza sul legame tra Tulliani e le società che avevano rilevato da An la casa di Montecarlo. Tornammo dal solito funzionario e chiedemmo se l’operazione era fattibile. Disse di sì, ma che ci sarebbe costata un milione di dollari».

Un’enormità
«Negoziai uno sconto, e riuscii ad abbassare la richiesta a 800 mila dollari. Duecento già li avevo, come ho detto. Me ne mancavano poco più di mezzo milione. Non potevo certo tornare a battere cassa da Martinelli. Quindi mi imbarcai sull’ennesimo aereo, stavolta per Roma. Spiegai al premier Berlusconi quello che mi avevano chiesto e lui mi diede, a Palazzo Grazioli, circa 500 mila euro in contanti per pagare la fonte».

Fosse vero quello che lei mi sta raccontando, si tratterebbe di corruzione internazionale. Non ci avete pensato?
«Lei si sbaglia. Ritengo che io e Berlusconi non abbiamo commesso alcun reato. Abbiamo solo pagato una notizia come fanno molti altri giornalisti. Ammetto che la somma è ragguardevole. In ogni caso, sarebbe tutto prescritto».

Ecco un altro motivo per cui parla solo ora della vicenda. Torniamo ai soldi avuti da Berlusconi. Li portò lei a Santa Lucia?
«No, avevo paura che se mi beccavano con quei contanti in aeroporto mi avrebbero sbattuto in cella a vita. Ci pensò ancora una volta l’agente inglese, che aveva un passaporto diplomatico e che, mi confermò lui stesso, si sarebbe spartito i soldi con i governanti caraibici. Lo stesso giorno in cui presi i soldi da Berlusconi, l’inglese atterrò a Ciampino. Il pomeriggio gli diedi i soldi, in una borsa verde. Eravamo al bar dell’aviazione generale. Tornammo con due voli diversi. Quando ebbero quello che avevano chiesto, il solito funzionario mi consegnò la copia della famosa lettera del ministro Rudolph Francis destinata al suo primo ministro, una nota in cui si evidenziava come fosse proprio Giancarlo Tulliani a capo delle società offshore che controllavano la casa di Fini. “Bingo!”, mi dissi. A quel punto la feci pubblicare su un giornale di Santo Domingo, El Nacional, e poi segnalai la notizia in Italia. La ripresero tutti, il ministro confermò che era stata scritta di suo pugno. Il gioco era fatto. Dopo qualche giorno, sull’Avanti, pubblicai anche la mail di Walfenzao, per metterci il carico da novanta».

C’è il suo zampino anche nelle conferenze stampa in cui il ministro Francis, a una sua domanda, conferma che la mail era autentica?
«Con Berlusconi e Ghedini cercammo di capire se era possibile richiedere i documenti ufficialmente, tramite una rogatoria internazionale. L’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano ci disse che una richiesta del genere poteva farla solo la procura. A quel punto fummo fortunati, perché il governo di Santa Lucia decise di organizzare una conferenza stampa. Furono talmente rapidi che, quando l’annunciarono, ero ancora in Italia. Chiesi di farla spostare di due giorni per arrivare sull’isola. Furono gentili e mi aspettarono, grazie al lavorio del solito inglese. Berlusconi ci teneva che andassi di persona, e io volevo fare lo scoop con L’Avanti. Lo feci, perché il ministro confermò davanti a tutti i giornalisti italiani che la mail era parte di un’indagine preliminare sulla vicenda Montecarlo voluta dal governo. Qualche mese dopo Franco Frattini, allora nostro ministro degli Esteri, chiese in via ufficiale se i documenti che avevo ottenuto erano veritieri. Pensi, da Santa Lucia confermarono con messaggio spedito con un Dhl».

Un dossieraggio a tutti gli effetti. Tutta l’operazione che scopo aveva?
«Quello di inchiodare Fini alle sue responsabilità. Gianfranco era diventato il nemico numero uno di Berlusconi. Lo volevamo fuori dal Pdl. Ma ribadisco: noi pagammo solo una fonte, la notizia che la casa di Montecarlo era di Tulliani era verissima. Solo dopo, grazie a un’inchiesta parallela della magistratura romana sui Corallo che proprio voi dell’Espresso avete raccontato per primi, si è scoperto che Giancarlo avrebbe usato per comprare l’appartamento i soldi degli imprenditori del gioco d’azzardo. (Tulliani è accusato di aver riciclato soldi di maxi evasioni fiscali, ndr). Ecco: se forse Fini sapeva della casa, nulla sapeva del presunto riciclaggio dei Tulliani».

Ci sarà questa storia nel libro che vuole scrivere?
«Sì. In realtà ne sto scrivendo due: il primo è un romanzo ambientato tra la Prima e seconda Repubblica, dove i protagonisti si muovono tra cospirazioni politiche, spionaggio, affari e terrorismo. L’altro è un lungo colloquio con due autorevoli colleghi, dove racconterò solo cose successe veramente».

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