Nei documenti internazionali spunta un trust segreto nelle isole Cook. Appartiene a uno degli eredi del fondatore del gruppo chimico Sir. Ed è stato creato negli stessi anni in cui sono spariti i soldi legati a una maxi corruzione

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Gli innocenti muoiono in Italia ammalandosi di tumori da inquinamento chimico. I colpevoli se la spassano all’estero e continuano a contare i soldi. Nascosti nei più impenetrabili paradisi fiscali.

Darsena di Porto Torres, pieno giorno. La raffineria e le ciminiere sono ancora lì, di fronte al mare, come se in questo pezzo di Sardegna nulla fosse cambiato, se non l’aumento esponenziale delle vittime di particolari forme di cancro. «Qui l’incidenza dei decessi per tumori respiratori nelle donne è superiore del 49 per cento rispetto al resto dell’isola. E la mortalità generale è aumentata del 6 per cento».

Domenico Scanu, radiologo, presidente dell’Associazione medici per l’ambiente della Sardegna, studia da anni i problemi sanitari causati dai veleni rilasciati dall’ex fabbrica del gruppo Sir-Rumianca. In questi terreni, mai bonificati, il benzene è a livelli esorbitanti, «150 volte superiori alla soglia di allarme», testimonia il medico e ricercatore, che registra anche livelli fuorilegge di cloruro di vinile e polveri sottili, «per cui le neoplasie polmonari e le malattie neuro-degenerative sono all’ordine del giorno».

Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, a un’ora di macchina dal Central Park di New York, c’è una villa in stile coloniale, di almeno 700 metri quadrati, con parco privato, vista sull’Atlantico, cinque camere da letto, otto bagni, piscina, campo da tennis in erba, a due passi da un porto per yacht e velieri esclusivi. Un palazzo di lusso che appartiene a Felice Rovelli, figlio ed erede di Angelo detto Nino, l’ex re della petrolchimica in Sardegna, il fondatore del gruppo Sir. Un cavaliere nero dell’industria.

La fabbrica avvelenata e la villa americana sono collegate da due montagne di soldi: le due eredità di Nino Rovelli, morto nel 1990. Qui in Italia è rimasto un lascito catasfrofico: almeno tre miliardi di euro, secondo le stime più basse, che lo Stato italiano e la Regione Sardegna dovrebbero pagare per bonificare i cimiteri dei veleni lasciati dalle ex fabbriche abbandonate dei Rovelli.

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All’estero, invece, è sparito un tesoro criminale
, incassato proprio dagli eredi dell’industriale della Sir, ultimi beneficiari del bottino di una maxi-corruzione da mezzo miliardo di euro. Soldi cercati per anni dalla giustizia italiana, con risultati parziali: oltre cento milioni sono sfuggiti a tutte le indagini.

Ora i Paradise Papers svelano per la prima volta una cassaforte offshore creata proprio mentre i Rovelli iniziavano a nascondere il tesoro della corruzione. Un trust che ha in portafoglio la villa da sogno americano di Felice Rovelli. Dietro la complessa struttura creata per nascondere la proprietà dell’immobile - un trust collocato nelle impenetrabili isole Cook, controllato da una fiduciaria delle Bermuda, che gestisce una società anonima – c’è una delle storie più nere dell’economia italiana. E della giustizia.

Tutto parte da Nino Rovelli, uno spregiudicato uomo d’affari lombardo che crea dal nulla il gruppo Sir, cresciuto per tutti gli anni ’60 e ’70 fino a diventare il terzo colosso chimico nazionale, dopo Eni e Montedison. Una crescita vertiginosa, favorita dalla Dc di Giulio Andreotti e dagli enormi finanziamenti concessi da banche pubbliche.

Felice Rovelli (foto d'archivio)
Dopo l’apertura delle fabbriche a Cagliari-Macchierddu e Porto Torres, Nino Rovelli diventa un re dell’isola, padrone di entrambi i giornali sardi e finanziatore del Cagliari dello scudetto. Presto però l’avventura chimica naufraga in un mare di debiti: già nel 1979 la Sir è in rovina, con un passivo record di 3.681 miliardi di lire dell’epoca (circa il doppio dello storico crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi). Il governo Andreotti vara due apposite leggi per il risanamento di industrie in crisi, che si applicano solo alla Sir. L’ipotetico risanamento fallisce prima di iniziare. E a pagare il conto è lo Stato: 1.600 miliardi di debiti vengono addossati alla Cassa depositi e prestiti, l’Eni deve comprarsi le fabbriche dei Rovelli in Sardegna, il resto del passivo si scarica sulle banche pubbliche. Un crac colossale: rivalutando le cifre con l’indice Istat, lo Stato ha perso l’equivalente di 11,9 miliardi di euro di oggi.

Ai suoi familiari, invece, l’industriale amico dei politici e delle banche ha lasciato un’eredità ricchissima. Comprata con una maxi-corruzione giudiziaria, gestita da altri complici potenti proprio negli anni di Tangentopoli. Il più famoso è Cesare Previti, avvocato di Silvio Berlusconi a Roma, poi ministro e parlamentare fino alla condanna definitiva del 2006. Al centro dello scandalo c’è l’incredibile epilogo di una causa civile avviata da Nino Rovelli nel 1982 a Roma. Dopo il rovinoso crac chimico, l’industriale non si arrende: chiede un risarcimento all’Imi, la banca statale, che si vede accusare di non averlo finanziato abbastanza. Il processo civile è costellato di anomalie. La svolta finale arriva in appello, nel 1991, quando un giudice corrottissimo, Vittorio Metta, ordina all’Imi di pagare ben 980 miliardi di lire (quasi mezzo miliardo di euro) agli eredi di Nino Rovelli.

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Detratte le tasse ereditarie, ai Rovelli restano 670 miliardi di lire, ma 68 se ne vanno in tangenti, divise tra Previti, altri due avvocati complici e il giudice corrotto. Tutto questo si scopre solo con l’inchiesta toghe sporche, che parte a Milano nel 1996 e si chiude in Cassazione dieci anni dopo, con le condanne definitive: la sentenza da mezzo miliardo è stata comprata da Previti e soci con le tangenti di Nino Rovelli.

A quel punto gli eredi Rovelli dovrebbero restituire l’intero bottino all’Imi. Ma la banca non vede un soldo e denuncia l’intera famiglia per riciclaggio. Indaga la procura di Monza, dove il pm Walter Mapelli e la Guardia di Finanza, nel 2007, riescono a trovare circa 200 milioni di euro, occultati in decine di trust e società offshore, divisi fra tre dei quattro figli di Nino Rovelli: Oscar e le sorelle Angela e Rita.

Dopo l’arresto di Oscar, i tre Rovelli restituiscono i loro 200 milioni all’Imi. E patteggiano tre condanne cancellate dall’indulto. Felice Rovelli, che era l’unico complice interno alla famiglia nella maxi-corruzione architettata dal padre, ha invece guadagnato una trionfale prescrizione in Cassazione: è colpevole, ma non può più essere condannato per scadenza dei termini. Quindi non è neppure indagabile per la sparizione del tesoro, perché ancora non esiste il reato di auto-riciclaggio. E così Felice, che vive negli Stati Uniti, può godersi in pace la sua fetta del tesoro. Quantificabile in cento milioni di euro. Che, se investiti in beni rivalutati con l’inflazione, diventano 164 milioni di oggi. Di cui finora nessuno dei tanti inquirenti e investigatori privati ha mai trovato traccia.

I Paradise Papers ora documentano che proprio Felice Rovelli è il beneficiario del Gaugin Family Trust (battezzato così, con il nome storpiato del pittore), controllato dalla premiata ditta Appleby, filiale delle Bermuda, ma collocato nelle isole Cook, inattaccabili dal fisco e dalla giustizia internazionale. Il trust è stato creato il 20 marzo 1995, proprio mentre Felice stava gestendo il tesoro della maxi-corruzione, incamerato in Svizzera l’anno precedente. Il trust delle isole Cook gestisce una società anonima, che dichiara ai fiduciari di Appleby di possedere terreni e immobili a Riverside, vicino a New York. La società-cassaforte ha lo stesso nome della via (che omettiamo in obbedienza alla legge sulla privacy) dove si trovano le sue proprietà. A quell’indirizzo c’è la villa da sogno comprata dall’erede di Nino Rovelli dietro lo schermo del trust anonimo. Ora svelato dai Paradise Papers. Ai suoi fiduciari Felice scrive di avere anche un altro domicilio, sulla stessa costiera dei vip vicino a New York, che non rientra nel trust. Le foto aeree mostrano una seconda villa in stile coloniale, di almeno 500 metri quadrati.

Contattato da l’Espresso, attraverso l’avvocato Massimo Dinoia, Felice Rovelli conferma che il trust è suo. E che possiede «solo l’abitazione in cui vive con la sua famiglia da oltre vent’anni». L’erede dell’industriale della Sir giura che «non ha la disponibilità dall’asserita somma di cento milioni». E precisa di essere «residente negli Usa dal 1988 e cittadino americano dal 2008», assicurando di aver «dichiarato quel trust al fisco americano e pagato tutte le imposte dovute annualmente». Quanto alla giustizia italiana, Felice si limita a ricordare che «la vicenda Imi-Sir è definitivamente chiusa e l’intera famiglia Rovelli ha definito ogni pendenza con l’Imi sin dal 2007».