Nuovi pentiti svelano i contatti delle cosche padane. Tra cene elettorali, 007 "amici di Bisignani" e "grembiuli" bolognesi. A parlare sono soprattutto i boss, che fanno tremare un sistema di potere. E così gli 'ndranghetisti riprendono a uccidere, in una guerra di mafia che non sconvolge la Calabria. Ma la pianura emiliana
Il lato oscuro della 'ndrangheta emiliana. Popolato da 007, forze dell’ordine, politici e massoni. L’intreccio tra potere e clan nella narrazione di quattro nuovi pentiti rivela scenari inediti in una terra che rifiuta l’etichetta di preda delle cosche. Sospetti per ora, che affiorano però negli interrogatori di alcune gole profonde. Un intrigo padano, dai contorni nebulosi, reso ancor più inquietante da un omicidio. La settimana scorsa in provincia di Reggio Emilia è stato ucciso un giovane di 31 anni, originario della Calabria. Persona perbene, lo descrivono tutti. Due figli piccoli e nessun precedente. Nella stessa via erano state bruciate due auto in quindici giorni. Oltre alla procura ordinaria si è attivata anche l’Antimafia. Si scava nel privato, senza tralasciare piccoli dettagli che portano all’attività del padre della vittima, un edile con una partecipazione in un consorzio dove sono presenti personaggi vicini ai clan.
Il delitto è «come sale su una ferita aperta», ha detto il questore nei giorni in cui anche a Ostia le pistole sono tornate a far paura.
Il timore che avessero ragione i pentiti però è forte. Alcuni di loro hanno avvertito i magistrati di Bologna di una possibile lotta interna alla ’ndrangheta. Non in Calabria, ma nella pianura emiliana. E come in tutti i conflitti la possibilità che muoiano anche gli innocenti è concreta. Sintomi di questa fibrillazione sono comparsi fin dentro i penitenziari, dove si sono verificati duelli tra ’ndranghetisti di opposta fazione. A nove mesi dell’inizio del più grande maxi processo alle ’ndrine del Nord, c’è chi teme un ritorno agli anni Novanta, quando a Reggio le cosche non esitavano a usare le bombe e le lupare. Sembrava la Corleone di Salvatore Riina, eppure era ed è la provincia di Reggio Emilia.
Lungo la via Emilia si sta abbattendo un ciclone giudiziario, alimentato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che stanno rivoltando il passato di complicità che molti davano per sepolto. C’è chi prega in segreto per salvarsi, chi riflette come prevenire il colpo e chi, invece, contrattacca nelle aule di tribunale dove lo Stato sta fronteggiando la cosca Grande Aracri - originaria di Cutro, nel Crotonese - ma trapiantata dagli anni Ottanta al di là della Linea Gotica.
Una cosa è certa: calato il sipario su questo processo dimenticato dalla stampa nazionale, nulla sarà più come prima in questa pianura trasformata in Far West. Tanto che il gruppo di ’ndranghetisti finiti in carcere ha trasformato le celle in hotel a 5 stelle. Tablet, cellulari, droga, caffè in cella preso con i poliziotti penitenziari, in stile don Raffaè. Pestaggi e accordi con la camorra. Tutto questo nella sezione alta sicurezza, da dove partivano persino pen drive con gli audio che servivano a istruire i testimoni del maxi processo.
Episodi emersi grazie ai collaboratori. Il contagio più temuto dalla ’ndrangheta si è ormai diffuso: in meno di un anno cinque nuove richieste di collaborare con la giustizia. Quattro super pentiti affidabili e un altro che la procura antimafia di Bologna non ha ritenuto credibile, nonostante sia il braccio destro del capo dei capi Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, e reggente del clan a Reggio Emilia. Gli altri che hanno ottenuto la patente di collaboratori credibili non sono, però, da meno. Nell’ordine: Nicola Femia, “Rocco” per gli amici, col grado di boss dell’omonimo gruppo mafioso; Pino Giglio, imprenditore e cassaforte della cosca Grande Aracri; Antonio Valerio, affiliato del cerchio magico del padrino “Manuzza”; Salvatore Muto, uomo d’affari del gruppo criminale cutrese. Insomma, per l’impenetrabile mafia calabrese è un colpo durissimo. Una tragedia epocale per l’organizzazione che vanta il minor numero di pentiti rispetto alle mafie tradizionali.
Il primo ad alzare bandiera bianca, sotto i colpi della procura antimafia di Bologna è stato Nicola Femia. A febbraio scorso “Rocco” ha chiesto di incontrare i magistrati. Dieci giorni dopo i giudici bolognesi lo condanneranno in primo grado a 26 anni per mafia.
Nell’ambiente del gioco d’azzardo legale è conosciuto come il signore delle slot. Uno dei primi a investire nel settore allo scoccare del nuovo millennio. Affondano qui le radici del suo impero economico e criminale. Stringe alleanze commerciali con imprese note del gaming, diventa partner di affermati imprenditori del Nord Italia e sfrutta la complicità di ingegneri informatici.
Regista di joint venture tra mafie con fatturati a sei zeri.
Oggi è un super pentito, che ha già riempito migliaia di pagine di verbali di interrogatorio. Carte scottanti, per gli argomenti che svela e per i nomi citati. Dichiarazioni che hanno permesso di aprire fascicoli in diverse procure antimafia e di rafforzare inchieste che sono in corso. Di certo, Femia, non ha mostrato alcuna remora di fronte ai pm: già al primo confronto ha ammesso di aver ucciso una persona quando aveva 15 anni. Fu assolto. L’omicidio era stato ordinato dal vecchio patriarca della mafia calabrese Vincenzo Mazzaferro. Quello fu l’inizio della sua carriera. In segno di riconoscenza il padrino lo battezzò «riservato» dell’organizzazione. In pratica Nicola Femia non aveva dovuto affiliarsi formalmente: «Sapeva (il boss ndr) che poteva contare su di me per qualsiasi cosa, non aveva interesse a rendere ufficiale una mia affiliazione». Da allora Femia inizierà la sua ascesa. Era uomo dei Mazzaferro, e questo bastava a spianargli la strada verso il successo. In Calabria come in Emilia. Nipote, peraltro, di un pezzo da novanta della cosca processato assieme a Michele Sindona, il banchiere della mafia pre Riina.
Femia, insomma, qualche segreto lo custodisce. Anche perché da quando ha lasciato la carriera di narcos per diventare re delle slot ha conosciuto figure di un certo peso. Come quel tale, descritto nei verbali come uomo dei servizi segreti, che si vantava di essere amico di Luigi Bisignani, «quello della P4, P5...», ha spiegato con una battuta. Non è l’unico 007 da lui frequentato. Le indagini hanno documentato diversi incontri con un agente segreto. Chiamato dai pm non ha voluto fornire spiegazioni.
Il collaboratore Femia sta illuminando con le sue dichiarazioni zone buie di questo territorio che sono collegate anche alla politica. Svela ai magistrati le richieste ricevute dai clan della Lombardia per organizzare cene elettorali in Emilia in favore di alcuni politici i cui nomi sono ancora coperti dal segreto. Riferisce anche di un ex deputato, sempre emiliano, che gli aveva fatto chiedere voti tramite il suo faccendiere. Rivela, poi, i rapporti con professionisti iscritti alla massoneria bolognese, delle mazzette per comprarsi le sentenze e il rapporto con un avvocato già parlamentare. Le storie trapelano dall’ambiente giudiziario dove però vige un grande riserbo.
Tutto quello che emerge dagli interrogatori fa vedere come in questo territorio si riesce con facilità a mettere in contatto un ex narcos diventato re dell’azzardo legale con pezzi delle istituzioni locali e nazionali. Basta pensare che nell’arco di sei mesi Femia con una sola società di gaming online è stato in grado di incassare fino a 40 milioni. Don “Rocco” non è tra gli imputati del maxi processo Aemilia contro la cosca Grande Aracri, ma in quell’aula è andato a testimoniare, perché con alcuni emissari di quella ’ndrina aveva stretto una partnership.
UNA QUESTIONE POLITICAIl “pentito” Salvatore Muto ripercorre adesso l’intreccio politico mafioso in Emilia, partendo dal 1994 quando sostie che venne impartito l’ordine dai clan di far votare Forza Italia. «Quelli che si diedero da fare erano tutte persone appartenenti alla ’ndrangheta o in qualche modo legate... mi occupavo del volantinaggio, appendevo i manifesti».
Secondo Salvatore Muto a distanza di ventitrè anni la passione per il partito di Berlusconi non si è affievolita. Il primo politico condannato in Emilia per complicità con i clan si chiama Giuseppe Pagliani, consigliere comunale e provinciale di Forza Italia. Condannato in appello a 4 anni, assolto in primo grado, nel filone politico del maxi processo. In un altro stralcio della medesima inchiesta è tuttora indagato per rivelazione di segreto il senatore Carlo Giovanardi, in passato nel Pdl.
Muto dopo la campagna elettorale per Berlusconi racconta di essere partito per Reggio Emilia. Accolto nella corte del padrino Nicolino Grande Aracri. Fu proprio don Nicolino a confidargli la formula del successo criminale:
«Le guerre le ho fatte al Nord e le ho vinte io».
Il collaboratore di giustizia custodisce segreti anche sull’attività politica attuale. Questioni di voti e potere. Ricorda quando il suo capo gli raccontò di aver ricevuto da un affiliato la richiesta di raccogliere voti per il candidato a sindaco del Pd di Reggio Emilia. Si tratta dell’attuale primo cittadino Luca Vecchi, successore dell’attuale ministro Graziano Delrio.
Un sostegno interessato, che però non è stato ricambiato: «Il sindaco non era a favore nostro, si è messo contro di noi», precisa Muto nel verbale del 17 novembre scorso. La moglie di Vecchi, Maria Sergio, è stata per anni dirigente dell’ufficio urbanistica del Comune guidato da Delrio. La coppia Vecchi-Sergio è stata presa di mira dal boss Pasquale Brescia, volto imprenditoriale dell’organizzazione e vicino a diversi poliziotti.
In una missiva inviata alle redazioni di giornali dal carcere ha lanciato accuse pesantissime sia al sindaco che a sua moglie. Lettera dai toni minacciosi, che ha portato la procura antimafia di Bologna a indagare Brescia e l’avvocato che lo difendeva. Il pentito Muto sta svelando ulteriori particolari di quella vicenda: sostiene che l’autore della lettera si vantava di sapere molte cose del sindaco Vecchi ma che non poteva parlarne.
La lettera, dice un altro pentito che si chiama Antonio Valerio, «fu scritta per far muovere il sindaco Vecchi a prendere le parti dei cutresi... visto che anche sua moglie Maria Sergio è cutrese e aveva un parente capo di Cutro negli anni ’60-’70... sapendo questo si cercava a livello psicologico di assoggettarlo».
In questo modo la 'ndrangheta emiliana messa alla sbarra ricatta. Per difendere ciò che ha costruito in trent’anni di colonizzazione.
CATASTO È POTEREPotito Scalzulli è un ex dirigente del demanio di Reggio Emilia. Oggi fa politica in Romagna, lontano dalla città in cui tutto è cominciato. La prima denuncia porta la data del 23 novembre 2010, in tempi non sospetti, dunque. Quando, cioè, il bubbone 'ndrangheta emiliana non era esploso pubblicamente. Scalzulli nei suoi esposti non ha mai usato mezzi termini: all’interno dell’ufficio che dirigeva si era incancrenito un sistema, «il sistema catasto», lo definisce. Sette anni di esposti che non hanno smosso alcunché. Per questo, adesso, con il maxi processo in corso ha deciso di inviare il malloppo di documenti e denunce raccolte negli anni alla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi.
«Prove documentali che certificano la collusione e la connivenza con il gruppo organizzato di pubblici dipendenti fautori del malaffare, il cosiddetto sistema catasto», si legge nell’incipit del documento inviato alla Commissione. Alla spartizione avrebbero partecipato, secondo l’ex dirigente, funzionari di vertice dell’Agenzia, politici interessati alla tenuta del “Sistema” per garantirsi la continuità del consenso «determinante per fare la differenza sugli equilibri politici elettorali».
Al centro delle denunce di Scalzulli anche un politico locale del Pd nonché dipendente dell’Agenzia del territorio, Salvatore Scarpino. Consigliere comunale di riferimento della numerosa comunità calabrese a Reggio Emilia e in ottimi rapporti con l’attuale ministro Delrio. Su Scarpino oltre alle denunce di Scalzulli pesano le dichiarazioni in aula di un testimone durante il processo alla ’ndrangheta emiliana. Renato Maletta, in passato candidato a sostegno di Delrio sindaco e sottoposto di Scarpino all’Agenzia, ha raccontato di aver fatto campagna elettorale per il consigliere Pd. Sorprendenti, tuttavia, le frequentazioni di Maletta: invitato al matrimonio, in Germania, del figlio di un boss e proprietario di un cavallo nel ranch reggiano di un imputato per ’ndrangheta. Non il massimo per chi aspira a ruoli politici. D’altronde, però, l’Emilia non è neanche più la roccaforte etica di un tempo.