L'ultimo atto è stata la firma del contratto sulla mobilità degil insegnanti. D'altronde, salita a viale Trastevere per conversione renziana, la titolare del ministero dell'Istruzione si è giocata tutto nella relazione tra professori e sindacati. In prospettiva anzitutto elettorale

Come chi se ne stia infine assiso - compiaciuto e insieme a disagio - su una sedia molto a lungo cercata, adesso che è ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, 67 anni di cui più di trenta nella Cgil e tre in Parlamento, s’è fatta prudente, alata, quasi ritrosa. All’apparenza, per lo meno: perché in sostanza resta la donna decisa, pratica e furba di sempre. Quella capace di organizzare al Senato, insieme all’Unione italiana sport per tutti, il convegno “O capitana, mia capitana” in omaggio alla lotta contro le discriminazioni di genere (cui tiene molto), di girare a braccetto del presidente emerito Giorgio Napolitano nel giorno in cui si approvano le unioni civili (cui tiene molto), o dichiarare (ma prima del referendum, eh) che Maria Elena Boschi è l’erede nientemeno che di Nilde Iotti, per difendere l’allora ministra dagli assalti delle vere “madri costituenti” indignate per la riforma.

Sotto ai “vedremo” e ai “faremo”, per la verità piuttosto vaghi, coi quali adesso condisce le sue prime uscite pubbliche, sotto agli scaltri no alle interviste di facile consumo come quella per dire che avrebbe potuto rilasciare (ma non ha rilasciato, con la motivazione che “non è il luogo adatto”) durante il suo primo viaggio ad Auschwitz con gli studenti, in meno di due mesi al governo la ex vicepresidente del Senato ha già imbastito i primi passi che costituiscono l’essenza del suo mandato governativo.

Vale a dire: ricucire (in prospettiva anzitutto elettorale, ci mancherebbe) i rapporti tra Partito democratico e sindacati, stracciati dalla gestione renziana in generale e dalla gestione Renzi-Giannini del capitolo scuola in particolare (come c’è da dire per tempo Fedeli aveva ammonito stesse accadendo). Se adesso i sindacati   sono arrivati a siglare il sospirato contratto integrativo di mobilità per gli insegnanti, già prima di Capodanno - con la marcia indietro relativa ai trasferimenti - alcune sigle avevano cominciato a parlare di un certo qual “riequilibrio di rapporti”. Roba che non si sentiva da un secolo. Evviva.
Istruzione al fronte
Così la scuola resiste alle riforme
1/2/2017

E così, subito eletta da Libero a “punching-ball del governo” per la sostanzialmente vacua polemica sui più o meno millantati titoli di studio (laurea-non-laurea, diploma senza esame di maturità) in cui è inciampata subito, per via della polemica graziosamente sollevata dai Family men Adinolfi e Gandolfini al solo scopo di screditarla, Fedeli (che comunque dei titoli di studio non ha mai avuto bisogno, visto il lavoro che fa) si è già immersa mani e piedi nel ruolo scomodo, ma di prestigio, di capa a viale Trastevere (oh capitana, mia capitana). Senza ulteriori particolari grilli per la testa  - dopo il ministero, a cosa vuoi aspirare? - ma anzi con la concretezza che la contraddistingue sin dai tempi in cui salì ai vertici dei tessili Cgil (e certo non si era in epoca di viva le donne).

È una vita del resto che le capita di far da ponte tra realtà vicine ma ostinatamente non coincidenti. Le accadeva anche quando, pur molto legata a Bruno Trentin che l’aveva scoperta e ai cui compleanni romani non mancava mai, era però di fatto della destra Cgil, quella degli accordi, dei pragmatismi, dei risultati più che degli scioperi.
Le è accaduto negli ultimi anni, ancor di più, quando si è trovata a far da tramite tra una certa solida immagine da politica di sinistra, e un renzismo che quella solida immagine tendeva a non volerla trasmettere più: esemplare, oltre alle varie interviste pro parità di genere nelle quali si esponeva in luogo della latitante Boschi, quella volta in cui spiegò addirittura non essere vero che Renzi pensasse di guadagnare voti attaccando il sindacato, e che per converso la Camusso che protestava contro gli ottanta euro era sostanzialmente un’ingrata.

Del resto, l’immagine più efficace di sé, Valeria Fedeli l’ha data lei stessa, nell’ottobre 2014. Quando, in Parlamento da un anno e mezzo, entrata bersaniana e divenuta giocoforza renziana, si trovò di mattina sull’autostrada, a guidare verso la Leopolda fiorentina - simbolo della sua ascesa - mentre però i torpedoni della Cgil sfrecciavano nella direzione opposta, per la manifestazione a San Giovanni contro Renzi alla quale non poteva partecipare, perché come disse a Repubblicao si è di lotta o si è di governo”.

Non stava in piazza proprio lei, 34 anni di tessera del sindacato in tasca, e moglie di quell’Achille Passoni che da direttore generale della Cgil cofferatiana, era stato soprannominato “c’è da spostare un torpedone” nel marzo 2002, in quanto organizzatore e mente della più grande manifestazione contro l’abolizione dell’articolo 18, quella al Circo Massimo, apoteosi di Sergio Cofferati. Altre stagioni, altri tempi. Del resto anche lui, Passoni, dopo un passaggio al Senato col Pd (legislatura 2008-2013, giusto quella precedente alla moglie), è divenuto saldo consigliere di Marco Minniti, il quale da Palazzo Madama l’ha portato come capo della segreteria tecnica prima a Palazzo Chigi, negli anni da sottosegretario con delega ai Servizi, e adesso nel salto a ministro dell’Interno.

Così, nell’ottobre 2014 – avendo giusto votato la fiducia al Jobs act che l’articolo 18 lo supera - l’oggi ministra Fedeli prese la saggia decisione di non invertire la macchina in direzione Cgil: ma anzi di proseguire, direzione Leopolda. Sia pur senza accendere la radio, restando sola in silenzio con se stessa. Una gestione degli affari correnti che, a conti fatti, ha portato più vantaggi a lei che alla sua fino a poco fa omologa della Camera, Marina Sereni: in quanto vicepresidenti dei due rami del Parlamento con delega al personale, le due dem hanno gestito in questi anni ciascuna il congelamento degli stipendi dei dipendenti di Senato e Camera, prendendo decisioni scomode e mettendosi anche contro i sindacati interni; ma al dunque, Fedeli è stata fatta ministra (con scarsi rimpianti tra il personale del Senato, riferiscono le malelingue), Sereni no. Una classico, in politica.