Organici, merito, alternanza: la Buona scuola ha provocato mille conflitti. Su assegni, potenziamento e stage ogni istituto decide come può, fra entusiasmi e malcontento. Ecco dove le promesse di cambiamento sono rimaste incagliate. E come prof e studenti, nonostante tutto, cercano di opporsi al caos
Sono le 7.55, suona la campanella. Al pianterreno un gruppo di supplenti s’affretta a finire il caffè. «Sono precario da 13 anni», dice l’unico maschio. «Altro che scomparsi, assunti da veterani. Siamo qui. Ora devo andare», e segue una fila di studenti. È lunedì, indossano il piumino: «È un prefabbricato, il problema del freddo dopo il week end è ovvio». Primo piano, terza media. La prof d’italiano, Alessandra Ibba, fa entrare la collega di tedesco. Illustrano insieme una ballata di Goethe. «Wer reitet so spät...». L’insegnante di sostegno passa fra i banchi. «La differenza è che il romanticismo era rassegnato alla sofferenza, l’illuminismo invece era convinto della felicità», dice Matteo. Primo banco, felpa blu, è il più bravo della classe. Ed è romeno. O meglio un nuovo italiano. Uno dei sei alunni “stranieri” su 10 che frequentano l’istituto Scialoia, quasi-periferia Nord di Milano.
Un pezzo di futuro e di Stato. Dove filtra, come altrove, la riforma alla prova di realtà. [[ge:rep-locali:espresso:285258717]]Come nelle altre 41.152 scuole statali, infatti, anche qui diventa dimostrazione l’ipotesi della “Buona Scuola”. Tutto compreso: compresi il caos sugli organici e i festeggiamenti per le assunzioni, le crisi fra insegnanti dal Sud e provveditorati del Nord, gli assegni di merito di cui nessuno fa vanto, i dubbi e gli entusiasmi sull’alternanza scuola-lavoro, la matematica a cui mancano pedagogie e la solitudine dei bimbi con “bisogni speciali”, restati senza professionisti a supporto. Se è sulle lezioni alla lavagna che si è infranta infatti tanta parte della popolarità di Matteo Renzi, se è contro il Miur che si abbattono ricorsi e sentenze, è dentro il testo della riforma, oltre che nei cavilli, nei provvedimenti, post-accordi e burocrazie che si è stemperato presto il colore del cambiamento promesso. Troppe girandole diventano stallo. E se questa è la grande debolezza della scuola, resta però una forza:
la sua resilienza. Perché l’antologia del caos continua a fermarsi alla porta di classe. «In aula, ragazzi, silenzio».
RUOLILa preside dell’Istituto Scialoja - infanzia, elementari e medie, un impegno sulla lingua tedesca “per dare un futuro ai nostri giovani” - mostra uno schema. «Il primo settembre ero felice», dice: «la sala riunioni era piena. L’organico completo». Durante l’estate Ida Morello s’era applicata, come i suoi pari, a oneri e onori della “chiamata diretta”, uno dei super-poteri dati dalla riforma ai dirigenti, apprezzati da loro, osteggiati dalla base: aveva elencato le necessità, letto i curriculum dei candidati, organizzato colloqui via Skype per scegliere. «Certo, avrei voluto potenziare la matematica, ma in questa zona c’erano solo cinque nomi. Già richiesti altrove». A fine agosto era riuscita a coprire, per la prima volta, tutti i posti di sostegno alla primaria, con persone titolate. «
Ma le maestre arruolate hanno poi chiesto e ottenuto l’assegnazione provvisoria al Sud». Sono tornate cioè vicine a casa. Il 90 per cento delle insegnanti allo Scialoja arriva da Sicilia, Calabria, Puglia, Campania. Non è una novità né un caso: è così ovunque, come ricordano
i dossier ripresi da Gian Antonio Stella sul Corriere. Nel paese rimasto diviso, la questione è diventata polemica nei primi mesi dell’anno, con sedi remote assegnate a chi aveva figli e famiglia, da una parte, e il contro-esodo al sole dall’altra. Risultato: disagi per gli studenti, buchi nei programmi e supplenze tardive.
«Siamo noi del Sud a istruire i figli del Nord!», dice affranta dalla disputa Salvina, maestra chiamate allo Scialoja, che ha deciso di restare: «Io però sono single, e per me è un’occasione». A 48 anni vive con due colleghe in un appartamento vicino alla stazione.
Una nuova vita da coinquiline, a 40 anni, a Milano. «Certo qui ci sono cultura e formazione. L’anno scorso ero finita in un piccolo borgo in Emilia. Uno shock», racconta la sua roomate, Daniela, della provincia di Ragusa. Sono sedute sui banchi mignon nella scuola d’infanzia, per una riunione pomeridiana, che sollevando la questione diventa più riunione carbonara: «Conosco colleghe devastate dal piano assunzioni della riforma», racconta un’insegnante campana: «Per 1.300 euro in una valle comasca, la vita distrutta». «Io invece sono felice del posto che mi ha dato Renzi», dice un’altra, di Lecce, da settembre di ruolo: «Sapevamo le regole. Mio marito non era d’accordo. Ma io ho insistito». Con loro c’è un maestro, siciliano. È supplente, moglie e figlia a carico. In primavera ha tentato il concorso ma è stato bocciato, come il 50 per cento dei candidati. «Per il ministero non andiamo bene. Eppure in provveditorato ci continuano a chiamare perché hanno bisogno di noi».
Dopo le prove dello scorso anno dovranno entrare in ruolo
63.712 nuovi docenti. In alcuni settori sono stati scartati fino a otto aspiranti su 10. Lucrezia è una dei cinquemila ricorrenti che hanno ottenuto di fare una prova ad aprile, perché erano sbagliati i criteri con cui si stabiliva chi potesse partecipare al test e chi no. «Ho superato corsi universitari selettivi per l’abilitazione. Speso oltre cinquemila euro in formazione. Insegno da anni. Sono stanca. Vogliamo certezze. Mentre aumenta il caos». Anche Maria Cristina Pulli è finita in un incaglio. Era stata messa di fronte al perdere tutto o prendere un ruolo alle medie, nonostante i suoi 162 punti in graduatoria di greco e latino al liceo. Sotto scacco, aveva accettato. Poi hanno cambiato le regole, ma intanto: «Mi dicevano: “
che ti lamenti, ora hai un posto fisso”. Ma non era solo per il contratto che ho studiato e investito per anni», racconta lei: «Mi sono rimessa in gioco. I ragazzi, la scuola, do il massimo. È stata dura. Quando entro in crisi mi ripeto “sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”».
VOTIDante. «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Isabella ha le unghie laccate d’azzurro. Sta al secondo banco, terzo piano, classe 3DL del linguistico Artemisia Gentileschi di Milano. Lezione di ripasso, parafrasi e commento ai canti. «Qual è il significato allegorico della lupa? Quello di un potere che aspira sempre a crescere. Ricordate? Di una ricchezza che non si pone limite, che diventa fine a sé». Il professore, Davide Bondì, collabora con l’università di Milano, Storia della filosofia contemporanea. È qui da un po’. «I nuovi docenti hanno curriculum impressionanti», dice Gabriella De Filippi, la vicepreside. Secondo gli analisti della
Fondazione Agnelli è il contrario, a mediare statistiche: «
L’assunzione in blocco di chi era nelle graduatorie ha avuto effetti negativi, abbassando la qualità e ostacolando il rinnovamento», spiegano. «Oltre al mismatch di competenze: sono entrati troppi docenti di materie giuridiche, ad esempio, mentre continuano a mancare in matematica e scienze».
Il Gentileschi ha 1.536 alunni, 30 classi di Liceo e 36 di Tecnico economico turistico. Cinzia Celino è la prof di Chimica più amata dell’istituto. Nella sua classe ha scelto per prima le “flipped classroom”: i ragazzi seguono le lezioni a casa, su video registrati, mentre in aula svolgono insieme esercizi e prove. «Dà risultati eccezionali, soprattutto con gli studenti meno bravi». Lei è una degli insegnanti che quest’anno hanno ricevuto “l’assegno al merito”, il bonus ai migliori previsto dalla riforma. «Sì, bene. Però... Il nostro preside è stato serio, ha seguito la griglia di valutazione data dai docenti. Ma
a mio avviso i beneficiari sono stati troppi. Tutto questo rumore, per 300 euro. E non si può neanche sapere chi fosse in graduatoria, a che posto. Tanto valeva...». Al Gentileschi l’assegno è stato dato al 33 per cento dei prof. Ogni scuola ha fatto a modo suo: chi l’ha distribuito al 10, chi all’80. E ad ascoltare o leggere reazioni ne sono rimasti scontenti più di quanti non gioiscano di fronte a quest’altro mosaico della legge: chi l’ha ricevuto tace o lamenta criteri e pesi. Chi ne è rimasto escluso borbotta, o asseconda veleni.
L’assegno è così diventato presto uno dei tasselli di riforma da riformare, per il nuovo ministro Valeria Fedeli. Fatica alleggerita su altro, però. Pochi giorni dopo l’incarico veniva pubblicato infatti dal Miur un dossier sul risultato più sbandierato della Buona Scuola:
l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria per gli studenti delle superiori - 200 ore ai licei, 400 a tecnici e professionali. Lo stage (anche in “imprese simulate” in aula, se serve) è diventato obbligatorio per poter accedere all’esame. Devono, insomma. Ma lo stesso è presentato come un successo l’oltre «95 per cento» di alunni partecipanti al piano. «Da noi non ci sono stati problemi, sono percorsi che abbiamo avviato anni fa», racconta Agostino Miele, il dirigente del Gentileschi: «Grazie a un accordo con Valtour, ad esempio, i nostri ragazzi sono in villaggi in tutta Italia».
Dal Volta di Reggio Calabria alcuni adolescenti sono volati al Cern. In altre province sono invece i “campioni dell’Alternanza”, battezzati tali dall’ex ministro Stefania Giannini, a garantire formazione sul campo: come commessi di Zara o Mac Donald’s, ad esempio. È il “modello tedesco”? «Mai manderei uno studente da Zara solo per esaurire le ore.
Queste esperienze devono avere attinenza a ciò che studiano», risponde Alessandro Parola. E sì che il liceo che dirige, Classico e Scientifico a Cuneo, è in una delle province più povere di aziende registrate all’albo nazionale per gli stage. «Stiamo costruendo rapporti con musei, biblioteche o centri studi come l’Istituto Candiolo sulle malattie tumorali».
MATTONIPercorrendo il registro delle sue preoccupazioni più gravi, Parola insiste però su altro. «La sicurezza degli edifici è responsabilità di noi dirigenti. Ma non ho soldi in cassa per la manutenzione ordinaria. Così mi invento “fund raiser”, trovo bandi da fondazioni bancarie o dalla Ue. Di notte mi sveglio con gli incubi. A fine novembre il prefetto ha consigliato di chiudere le scuole per il maltempo. Al Darwin di Rivoli proprio in quei giorni è caduto un controsoffitto per le infiltrazioni d’acqua». L’ex governo ha previsto fino a sette miliardi e 800 milioni di euro per rendere sicure le scuole. Alla presidenza del Consiglio una squadra coordina le spese. «Aiutiamo a focalizzare gli obiettivi. Come quello fondamentale dell’adeguamento, e non solo del “miglioramento”, sismico. O l’opportunità di costruire nuovi impianti piuttosto che ristrutturare prefabbricati», spiega Laura Galimberti, l’architetto che guida la squadra: «Sono le regioni però a stabilire priorità e lavori. Noi non possiamo intervenire sulle loro scelte». Così non sempre la mappa dei
3.500 edifici scolastici in zona sismica coincide con la mappa dei cantieri aperti, ad esempio. Un’urgenza improrogabile, come mostrano le foto di Rocco Rorandelli, nate per un progetto con Cittadinanzattiva.
È finita l’ora. Nell’ultimo tema la professoressa Ibba chiedeva ai ragazzi di immaginare un colloquio con un 50enne cresciuto senza smartphone. «Io che insegno da 25 anni e ho un gruppo di WhatsApp con gli studenti...». Resiliente, la scuola resiste.