Ferma in Senato da 450 giorni la legge per la cittadinanza, che potrebbe riguardare oltre un milione di persone, attende di essere discussa. Intanto centinaia scendono in piazza: “C’è una volontà politica a bloccare tutto, ma l’Italia prima o poi cederà, siamo una ricchezza”

Quando Mohammed parla dell’Italia dice “il mio paese”. In casa sua sono in cinque: due italiani e tre marocchini. Mohammed fa parte dei secondi. Da un lato il padre e il fratello più piccolo, dall’altro lui, la madre e un altro fratello. “Se ricevessi la cittadinanza domani potrei aiutare la nostra società, riaffermare i valori europei. Mi sento italiano, ma politicamente posso partecipare solo da esterno. Vorrei mettermi in gioco”.
 
Mohammed Yamoul ha 23 anni, 12 anni fa è arrivato da Casablanca e da un anno ha chiesto la cittadinanza, prima non ha potuto perché la famiglia non aveva il reddito minimo necessario. Ora vive in una casa spaccata in due, mezza italiana e mezza marocchina, racconta ridendo. Gli spiace solo per il fratello più piccolo, prima di diventare italiano non è riuscito ad andare in gita negli Stati Uniti con la scuola.
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Mohammed crede in un’Italia diversa, non in quella di “una certa parte politica che vuole bloccare tutto”. Con lui molti “italiani senza cittadinanza” stanno scendendo in piazza per chiedere l’approvazione dello ius soli. La legge che fa ottenere la cittadinanza a chi è nato sul suolo italiano si discuterà in Senato il 28 febbraio dopo uno stop di quasi un anno e mezzo dal sì della Camera dell’ottobre 2015. A palazzo Madama potrebbe però trovare il muro di Ncd, Fratelli d’Italia e parte del Pd. Una battaglia che riguarda quanti vivono qui, ma soprattutto quanti nasceranno un domani in Italia. Si stima siano 900.000 mila stranieri nati in Italia che usufruirebbero dello ius soli una volta approvato.
 
“Ormai sono abituata, succede sempre la stessa cosa, mi guardano e chiedono da quanto tempo vivo qui e come mai parlo così bene l’italiano, eppure in Italia ci sono nata”, a raccontare è Deka Mohamed 22 anni nata a Torino da genitori somali. “Nessuno crede che io sia italiana, anche per via del mio aspetto, qui l’immigrazione è una cosa nuova. Ormai però lo sono da dieci anni”, dice col sorriso Deka che studia fotografia e videomaking allo Ied.
 
Con l’approvazione dello ius soli potrà chiedere la cittadinanza chi è nato in Italia da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo o titolare del diritto di soggiorno permanente. Un’aggiunta rispetto al testo iniziale che prevedeva solo la residenza continuativa per cinque anni, necessaria però per soddisfare le richieste di Ncd e Scelta Civica.
 
I limiti che Deka ha vissuto sulla sua pelle non se li ricorda, erano i genitori a sbrigare le faccende burocratiche, ma quando a 12 anni ha ricevuto la cittadinanza con la sua famiglia ha iniziato a viaggiare sempre: “Ricordo che non ci muovevamo mai. Dopo è stato un continuo, ho parenti sparsi per il mondo, cugini che ho conosciuto solo da adolescente: prima non ho avuto l’opportunità di crescere con loro”.
 
Deka si ritiene fortunata, piange mentre racconta la sua storia davanti ai manifestanti sotto la prefettura torinese. Molti genitori con i figli piccoli in braccio e tanti giovani che si sentono italiani. Insieme intonano l’Inno di Mameli. In questo “febbraio della cittadinanza” fanno sentire la propria voce, grazie alla campagna “L’Italia sono anch’io”. Sono in centinaia tra Milano, Bologna, Padova, Torino, Londra, e si incontreranno per la manifestazione nazionale di Roma del 28 febbraio.
 
“Abitiamo qui dagli stessi anni, abbiamo fatto le stesse scuole, ma loro non hanno voce in capitolo, mi sento in colpa per questo”, racconta Daka che ha potuto votare al referendum e alle comunali della sua città a differenza di molte sue amiche con origini straniere. Già perché lei ha la cittadinanza anche perché suo padre è in Italia da 30 anni quando è venuto per un dottorato di ricerca. Ma in fondo è convinta “l’Italia prima o poi cederà, siamo una ricchezza”.
 
Il voto non è l’unica distanza che questi “italiani del sesto continente”, come si fanno chiamare, percepiscono. Anche perché non per tutti è importante. “Se votare servisse a qualcosa sarebbe già stato proibito”, dice Alfredo, nato in Ecuador e arrivato in Italia 12 anni fa. Per lui non ci sono stati problemi fino all’anno scorso: “Finita la triennale avrei voluto proseguire la magistrale in qualche paese europeo, ma non essendo cittadino avrei dovuto dimostrare garanzie economiche che non ho”, spiega il ragazzo che studia agraria e si definisce bolzanino.
 
Alfredo in caso di ok al Senato gioverebbe dello ius culturae che prevede la cittadinanza per il minore straniero nato o arrivato in Italia entro il dodicesimo anno di età, che ha frequentato per almeno cinque anni istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale. Attualmente sono circa 360.000 gli alunni stranieri tra scuole dell’infanzia, primarie e secondarie iscritti nel 2014-2015.
 
“Una persona che è nata qui dovrebbe essere cittadino italiano, non solo per la questione del territorio, qui si parla del diritto ad avere un’identità”, spiega Alfredo “privare una persona di questo, lo costringe a cercarne una dove non ce l’ha”.
 
“Lo chiamano ius soli temperato, ma sarebbe già qualcosa, iniziamo da qui, da chi nascerà qui”, dice Ahmed Abdullahi, somalo di 28 anni, mediatore culturale, cittadino italiano dal marzo 2016, vive a Settimo Torinese, in provincia di Torino. Sbarcato a Lampedusa otto anni e mezzo fa è stato accolto come rifugiato politico. “Arrivato al centro di accoglienza mi sono dato subito degli obiettivi: imparare l’italiano, fare esperienza lavorativa, trovare casa, e poi chiedere la cittadinanza. E oggi ho raggiunto tutto”, spiega in un italiano perfetto.
 
Per chi è rifugiato servono cinque anni in Italia di cui gli ultimi tre con un lavoro fisso per ottenere la cittadinanza. “Io sono fortunato ho tanti amici che non ce l’hanno. L’Italia salva vite umane e per questo va ringraziata, ma sull’integrazione c’è ancora molto da fare. Si parla ancora di accogliere o respingere, ma bisogna fare il passo successivo: come vogliamo accogliere”.

Ahmed dice di non essere migliore di tanti suoi connazionali sbarcati con lui, ringrazia il comune che l’accolto per avergli dato un'opportunità. Crede sia tutto lì il problema, permettere alle persone di integrarsi. “Il primo viaggio che ho fatto con la cittadinanza italiana è stato in Ungheria, per incontrare i tanti siriani, afghani e iracheni che cercano l’Europa. Ho detto loro che ero dall’altra parte del muro solo grazie a un pezzo di carta”.