La sinistra di oggi chiede solo diritti per il singolo: che fine ha fatto la lotta sociale?
Con i movimenti del '68 sono scomparse dall'agenda le istanze e la critica strutturale al modello del profitto. Ormai i riformisti puntano solo alle libertà del singolo da ottenere "a costo zero". Un programma da partito liberaldemocratico
La proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) venne accolta con un certo scetticismo dalle forze che si ispiravano alla tradizione socialista e comunista. Al contrario, oggi, a settant’anni di distanza, l’unica cosa che accomuna le varie “sinistre” occidentali pare essere l’appello ai “diritti soggettivi” (civili, umani). L’idea che un “ampliamento dei diritti” in quanto tale sia un’agenda politica di sinistra è diventata senso comune.
Questa metamorfosi sarà forse un’evoluzione politica ben giustificabile, ma tale giustificazione non sembra che nessuno abbia sentito l’urgenza di fornirla.
Se indugiamo nel prestigioso ossario della Sinistra vi troviamo cose come le critiche marxiane alla concezione dei Diritti dell’Uomo espressa dalle Rivoluzioni americana e francese. Marx obiettava che quei proclami concepivano l’uomo in modo artificiale, astorico e isolato, con interessi indipendenti e conflittuali, sul modello delle moderne relazioni di mercato. Molti dei diritti proclamati, per quanto condivisibili, constavano di rivendicazioni formali astratte e mistificanti. Così, la proclamazione solenne dell’eguaglianza formale tra gli uomini lasciava intoccate, e anzi legittimate, tutte le diseguaglianze economiche e di potere.
Naturalmente può ben darsi che Karl Marx avesse torto dove Laura Boldrini ha ragione. Ma forse non bisognerebbe aver fretta di darlo per acquisito.
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I diritti soggettivi sono primariamente libertà di fare qualcosa a prescindere dalla volontà altrui, o richieste che terzi facciano qualcosa per noi. Tali istanze pretendono di essere imperative, cioè di prescindere da valutazioni di opportunità, moralità, utilità, ecc. Se qualcosa è un diritto può essere preteso sempre. Inoltre, molti diritti soggettivi (es: i diritti umani) si dicono fondati in natura, dunque inerenti a un’essenza che prescinderebbe da storia, tradizione, cultura.
Nel nome dei diritti umani e civili molte battaglie importanti sono state combattute e vinte, dunque nessuna critica può sminuirne il ruolo storico. Tuttavia è utile sottolinearne alcuni limiti.
Innanzitutto, la pretesa indipendenza dei diritti soggettivi “naturali” da contesti storici e antropologici è notoriamente una finzione. Per dire, fissare che ogni essere umano ha per sua essenza diritto a un giusto processo in tribunale rimuove il fatto che istituzioni come tribunali e processi erano ignote in molte comunità storiche. Inoltre, e più importante, la pretesa che i diritti siano una sorta di imperativi categorici è anch’essa una finzione. Nessun diritto ha validità assoluta, essendo concretamente condizionato ad altri diritti e/o a valutazioni morali o di utilità. Ho diritto alla privacy, ma essa può essere limitata per esigenze di sicurezza nazionale. Ho diritto alla libertà, ma per esigenze di difesa sociale sono carcerabile. Ho diritto di espressione, ma purché non promuova il razzismo, o non minacci la privacy, o la sicurezza, o non violi un contratto, ecc.
Di fatto i diritti fanno solo il gesto di essere imperativi non negoziabili. La loro implementazione è sempre valutata contestualmente, e definita in rapporti di forza, di potere contrattuale o di egemonia culturale (da avvocati, giudici, governi).
Il linguaggio stesso dei diritti è pervaso da una pretesa di assolutezza, su base individuale, che promuove aspettative irrealistiche bloccando la ricerca di un terreno comune e alimentando confronti conflittuali. L’espressione “È un mio diritto!” funziona come punto d’arresto non negoziabile, dove le motivazioni avrebbero termine e dovrebbe semplicemente seguire l’esecuzione. Ma questa insindacabilità è illusoria, giacché persino i più consolidati tra i diritti sono relativizzabili in contesti specifici.
È inoltre diffusa l’idea che un’estensione dei diritti soggettivi vada di per sé in una specifica, e lodevole, direzione etica. Ma le cose non stanno così. Ad esempio, supportiamo il diritto al godimento del proprio corpo e a non essere ridotti in schiavitù, ma, con aggiustamento storico tutt’altro che implausibile, potremmo decidere che ciascuno deve avere il diritto di vendere il proprio corpo (come schiavitù), o pezzi di esso (come compravendita d’organi). Anche questo potrebbe passare per “ampliamento dei diritti dell’individuo”.
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La diffusione di una “politica dei diritti soggettivi” ha una sola direzione effettiva, ancorché involontaria: mentre in teoria diritti come rivendicazioni individuali o come richieste sociali possono essere formulati con pari legittimità, di fatto una “politica dei diritti” alimenta le prime a scapito delle seconde. Gli articoli della Dichiarazione del 1948 parlavano anche di diritto al lavoro, a una remunerazione soddisfacente, al riposo e allo svago, a un tenore di vita sufficiente, alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia, a un’istruzione indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana, ecc.
Curiosamente gli odierni appelli contro le “violazioni dei diritti umani” obliano questi articoli, così massicciamente disattesi. In questa amnesia non c’è alcun mistero. I diritti la cui implementazione richiede prevalentemente omissioni o non interferenze (diritti formali come libertà d’espressione, di culto, ecc.) sono relativamente facili da imporre, spesso a costo zero. Al contrario, diritti la cui implementazione esige redistribuzione di risorse, o ripensamenti dell’organizzazione sociale tendono ad essere annacquati o sacrificati.
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Questo processo è compendiato al meglio nel passaggio storico da cui sono emersi i lineamenti delle odierne forze di sinistra: il ’68. Nel variegato panorama delle rivendicazioni del ’68 due gruppi di istanze erano distinguibili: istanze libertarie (contro l’autorità della famiglia, dei professori, dei “guardiani della morale”, ecc.) e istanze strutturali (palingenesi dello stile di vita, modelli di vita non occidentale, contestazione della logica del profitto, ecc.). Quali che siano i rispettivi meriti, qualche decennio dopo delle due linee “rivoluzionarie” solo la prima, di ordine individualistico e libertario, aveva lasciato tracce consolidate. La seconda, sociale e strutturale, ci appare oggi come una curiosità storica.
Dall’eredità culturale di quegli anni le forze di “sinistra” uscirono con un’agenda sempre più indirizzata verso lidi liberali, un’agenda dove era avvenuta la santificazione delle voci individuali e delle relative rivendicazioni, mentre si era atrofizzata l’analisi del processo storico e delle sue forze. Solo che per magnificare i diritti degli individui - istanza talvolta lodevole - esisteva già una ideologia storica, il liberalismo libertario. Ora, se questo vuol essere oggi l’orizzonte delle sinistre, va benissimo, ma allora non sarebbe forse opportuno liberare uno spazio politico occupato agitando - occasionalmente e abusivamente - nostalgie “rosse”? Avessero il coraggio e l’onestà di fondare un bel partito liberaldemocratico. Non è escluso che qualcuno ne senta il bisogno.