«Tutto mi è contro, compreso il mio carattere. Eppure non ne ho ucciso nemmeno uno». Parla Daniela Poggiali, l’infermiera  sospetta serial killer 

Daniela Poggiali ha 45 anni, i capelli ancora biondi, una condanna all’ergastolo e un armadio di faldoni in procura con il suo nome. Potrebbe essere colpevole di decine e decine di omicidi, tutti di pazienti ricoverati nell’ospedale di Lugo di Ravenna, dove lei era infermiera. “Potrebbe”, bisogna scrivere, perché lei invece si professa del tutto innocente.

Il caso di Daniela Poggiali esplode il 9 ottobre del 2014, quando alle 22 i carabinieri bussano alla porta della sua casa di Giovecca, paesino di quattrocento anime che segna la fine della provincia ravennate e l’inizio di quella ferrarese. L’accusa: omicidio volontario di una paziente, la 78enne Rosa Calderoni. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti la donna era morta per un’iniezione letale di cloruro di potassio. E a toglierle il respiro sarebbe stata proprio quell’infermiera che da tempo in reparto tutti sospettavano essere protagonista di un’inspiegabile escalation di decessi. L’11 marzo scorso, la sentenza di primo grado: la Corte d’assise di Ravenna, presieduta da Corrado Schiaretti, ha stabilito che sì, a uccidere Rosa Calderoni era stata Daniela Poggiali. Finora questa è l’unica morte sospetta per cui l’ex infermiera è stata condannata. Nelle scorse settimane il procuratore generale Luciana Cicerchia ha chiesto ai giudici della Corte d’appello di Bologna la conferma dell’ergastolo per questo decesso: a breve arriverà il nuovo giudizio.

Poi ci sono le statistiche: quando la Poggiali era di turno, i decessi nel suo reparto aumentavano vertiginosamente. Di qui il sospetto che per i corridoi di quell’ospedale si aggirasse un angelo della morte con delle fiale di potassio in tasca, alla ricerca di una vittima. Secondo questa ipotesi, Poggiali potrebbe essere colpevole di circa 90 omicidi. Nel caso, sarebbe tra i più grandi serial killer della storia. Ma questa per ora è matematica, niente più. Di certo c’è che oggi Daniela Poggiali guarda la vita scorrerle davanti attraverso le sbarre di una cella nella prigione di Bologna, dove ha accettato di raccontare la sua versione all’Espresso, grazie alla mediazione dei suoi avvocati Lorenzo Valgimigli e Stefano Dalla Valle.

Le statistiche dicono che con lei in reparto all’Umberto I si moriva molto di più. Come se lo spiega?
«Difficile spiegarlo. Forse addirittura impossibile. La verità è che quello in cui lavoravo io era un reparto problematico e io lavoravo molto. Negli anni da infermiera ho fatto numerose notti e se una collega aveva bisogno di una sostituzione non mi tiravo indietro. Questo perché ho sempre svolto con dedizione il mio lavoro e, non credo sia un segreto, anche per guadagnare qualcosa in più. Ma questa mia passione per il lavoro non vuol dire che io abbia ucciso qualcuno. Ho sempre vissuto per aiutare i pazienti».

La nomea che si era fatta in corsia di donna rigida e irreprensibile le si è ritorta contro. Si rivede in questa descrizione?
«È innegabile che io sia sempre stata una persona molto diretta nel mio modo di relazionarmi agli altri. Non mi è mai piaciuto perdere tempo e se una cosa è da fare la faccio, senza aspettare. Luigi (l’ex fidanzato, ndr) mi chiamava “tedescona” e forse in parte aveva ragione, perché per me nella vita esistono solo il bianco o il nero, difficilmente concepisco la scala dei grigi. Tutto questo, tuttavia, non vuol dire che io abbia mai fatto del male a nessuno. Non ho mai somministrato un sedativo senza prima avere la prescrizione da parte del medico. Non ho mai ucciso nessuno».

La precisione e la correttezza che lei rivendica nel suo approccio al lavoro stridono con quelle terribili fotografie uscite nei giorni successive il suo arresto, sorridente accanto a una paziente morta. Ma per quale motivo le fece?
«Quelle due immagini agli occhi dell’opinione pubblica mi hanno fatta diventare un mostro senza pietà. Sicuramente sono state pose molto stupide. Però l’iniziativa non fu mia, ma della collega che me le scattò, dicendo che voleva farmi due scatti “trasgressivi” in divisa. Con questo non voglio giustificarmi, perché riconosco di aver sbagliato. Farle è stato un grave errore».

Ritiene di doversene scusare?
«Certo. Se e quando uscirò dal carcere, la prima cosa che farò sarà andare a scusarmi con i familiari della donna ritratta nelle fotografie».

Conosce quella che viene definita “sindrome da burnout”? Qualcuno sostiene che lei sia diventata un’assassina dopo aver perso l’equilibrio psicologico anche a seguito di un eccesso di lavoro...
«So cos’è il burnout, una sindrome molto pericolosa per chi lavora in ambiente sanitario. Bisogna imparare a riconoscerla: tante volte quando vuoi aiutare gli altri e ti spingi troppo oltre rischi di arrivare a un punto di non ritorno, una forma di esaurimento molto pericolosa. In questo sforzo verso gli altri è importante dosare le energie e riconoscere quando occorre fermarsi un attimo. A volte superficialmente certi sintomi possono essere confusi come una normale stanchezza, invece potrebbe essere qualcosa di molto più insidioso. Partecipare alla sofferenza, al dolore dell’altro, ti porta a diventare anche tu parte di quel dolore. Per evitare di essere completamente assorbito e travolto è importante che l’operatore sanitario, a qualunque livello, conosca gli strumenti di un sano distacco: altrimenti la sofferenza ti uccide. Io però sapevo come affrontare la stanchezza, non sono uscita di testa, non ho ucciso nessuno».

Ma quali reazioni psicologiche si scatenano a lavorare ogni giorno a stretto contatto con la morte?
«Quando muore una persona è sempre una sconfitta. Poi è chiaro che faccia parte della vita e devi imparare ad accettarla. Quando vedi la morte ti viene una gran rabbia, un senso di impotenza. La cosa che ho imparato in ospedale è che non si è mai pronti abbastanza ad affrontare la morte. A volte qualcuno pensa di esserlo, ma forse si illude, meglio essere umili di fronte a questo problema, perché non ti lascia mai indifferente».

Parliamo della sua vita prima del caso giudiziario. Ha sempre voluto fare l’infermiera?
«Partiamo da ancora più indietro. Dopo le scuole medie - allora io e la mia famiglia abitavamo a Conselice (piccolo comune vicino a Ravenna, ndr) - decisi di iscrivermi a Ragioneria. La scuola mi piaceva, in particolare le lingue straniere e la matematica. Dopo gli studi iniziai a cercare lavoro in banca, ma non ebbi successo. Fu così che insieme a un’amica decisi di iscrivermi alla scuola per infermieri a Imola. Nel frattempo lavoravo in un magazzino di frutta per potermi mantenere gli studi».

Mi hanno detto che lei era una delle migliori del suo corso. Qualità riconosciute in sede di processo anche da alcuni suoi colleghi.
«Sicuramente ero appassionata e studiavo tanto. E questo mi ha aiutata. Tanto è vero che quando divenni infermiera, al termine del corso, trovai subito lavoro all’interno del Villa Maria Cecilia (una struttura ospedaliera di Cotignola, sempre nel ravennate, ndr). Avevo appena 25 anni».

Quale valore attribuisce al ruolo dell’infermiera?
«Essere un’infermiera vuol dire tante cose: aiutare una persona malata, come prima cosa, ma non solo. Significa essere sempre con quella persona, dal ricovero alle sue dimissioni nei casi migliori o più fortunati e dare consigli su come preservare al meglio la propria salute. Ma spesso significa anche assistere una persona nella fase del trapasso, della morte. Essere infermiera è bello, ha tanti aspetti e tutti umani, come un prisma con tante facce. Di certo non ci si annoia».

Per arrivare all’Umberto I di Lugo immagino sia dovuta passare da una serie di concorsi pubblici. Quando iniziò la sua carriera dentro quella struttura?
«Fin da subito ho iniziato a fare i concorsi a Torino e Milano, anche se mio padre non era molto d’accordo. Se gli avessi dato retta, forse oggi… Ma è inutile però parlare del passato. Le scelte che ho fatto mi hanno portata nel 2002, dopo essere salita in graduatoria, a prendere incarico all’Umberto I di Lugo, nel reparto di medicina. Lì ho prestato servizio per 12 anni, senza prendere un solo giorno di malattia».

Eppure lei stessa ha dovuto combattere con un problema di salute molto serio. Come ha fatto a non assentarsi mai?
«Sì, era il 2001 quando mi è stato diagnosticato un linfoma non Hodgkin. È stato un periodo complicato della mia vita personale, fortunatamente conclusosi con esito positivo. Le cure erano debilitanti e invasive. Ho dovuto fare sei cicli di chemioterapia. Questo però non mi ha fermata. Ho smesso di fare il turno di notte, ma se durante il giorno non avevo la febbre andavo sempre a lavorare».

Quando ci si trova a dover combattere con una malattia così grave, che consapevolezza si assume del valore della vita?
«La malattia ti fa capire che la vita non è scontata, che oggi ci sei, ma domani non lo sai. Per questo è importante cogliere un significato anche nelle cose che ti sembrano banali o senza senso. La malattia ti aiuta a scegliere meglio le cose, a escludere il superfluo, a concentrarti sulle cose essenziali. Sai di esserci, per il momento, ma sai anche che tanti altri, con la tua stessa malattia non ci sono più e non hanno avuto la tua stessa fortuna».

Che cosa le manca, adesso, della vita passata in corsia?
«Cosa mi manca? Certo non lo stress dei pesanti turni di lavoro. In un reparto di medicina la pressione non si può eliminare, ma non è la compagna migliore e non ne sento nostalgia. Invece mi manca tantissimo il contatto con i pazienti e con i loro parenti. Mi manca quel sorriso, quel dire “grazie” che viene dal cuore, quando la persona si sente un po’ meglio per via del tuo aiuto».

Il lavoro l’ha portata ad assistere anche suo padre in punto di morte. Che rapporto avevate, lei e suo padre?
«Era un uomo dal carattere duro, forte. In questo credo di assomigliargli molto. Vivere la sua morte da vicino fu molto difficile. Era l’inizio del 2003. In quel periodo entrava e usciva dall’ospedale per un tumore al colon. Io lavoravo a Lugo da pochissimo. Una notte ebbe una crisi molto forte e venne ricoverato proprio nel reparto di medicina dove lavoravo io. Gli sono stata vicino, ma purtroppo il giorno dopo morì. Era l’11 marzo, e il 13 avrebbe compiuto 68 anni. La sorte ha voluto che i funerali fossero celebrati il giorno del suo compleanno. Si chiamava Luigi e aveva passato la maggior parte della sua vita a lavorare in autostrada, era uno di quegli operai che si vedono ogni tanto con la tuta arancione. Quando io non ero ancora nata aveva un negozio di oreficeria e prima ancora di caccia, ma dovette chiuderlo. Il suo interesse per la caccia era uno dei nostri motivi di scontro: io detesto la caccia».

E con sua madre che rapporto aveva?
«Mamma è una donna mite, ma ugualmente straordinaria. Purtroppo anche lei ha i suoi problemi di salute e temo che quanto mi è capitato abbia aggravato la sua situazione. Lo noto quando viene in carcere a trovarmi. Negli anni le sono stata vicino in ogni occasione. L’ho curata quando è stata male, la accompagnavo dal parrucchiere e le davo una mano con le faccende di casa. Questo è il rispetto che le devo per avermi portata in grembo».

Parliamo di Luigi Conficconi, l’uomo che aveva scelto come compagno della sua vita e che le è rimasto accanto per tutto il processo, fino a quella sentenza di ergastolo che ha travolto anche lui. Come vi siete conosciuti?
«Ho conosciuto Luigi quando lavoravo a Villa Maria, dove avvenne il nostro primo incontro. Io ero infermiera, lui magazziniere e per me fu amore a prima vista. Lo stesso non si può dire per lui. Gli ci volle un po’ di tempo prima di lasciarsi andare al sentimento verso di me. Quando lo conobbi era ancora traumatizzato per una storia sentimentale finita male poco tempo prima e capivo che fosse normale per lui essere diffidente in quel momento, ma ebbi fiducia e perseverai. Alla fine lui arrivò, quando capì la serietà dei miei sentimenti e iniziò a fidarsi. Da quel giorno non ci siamo più lasciati e posso dire che quella con Luigi è stata e sempre sarà l’unica storia importante della mia vita».

Ha avuto altre relazioni prima di quella con lui?
«Nessuna importante. Io penso che ci si innamori una sola volta nella vita e quando succede è per sempre, a prescindere dalla durata della relazione, la quale può dipendere da tante altre cose. E in questo Luigi oltre a essere l’uomo della mia vita, l’amico, il confidente è soprattutto un compagno. Ha la capacità di farmi ragionare, di farmi vedere le cose da un altro punto di vista, mi critica, ma capisco che lo fa a fin di bene, in modo disinteressato, per aiutarmi».

Come ricorda il tempo trascorso insieme a lui?
«Senza dubbio come quello più bello della mia vita. Ricordo ancora quando andammo a vivere nella nostra casa di Giovecca, 4 o 5 anni dopo l’inizio della nostra relazione, e la serenità che provavo in quei momenti. Naturalmente non sono mancati litigi, discussioni e problemi, ma quei confronti ci hanno fatto crescere e hanno consolidato la nostra relazione. Voglio tornare a essere libera. Voglio rivivere quei momenti».

Però l’anno scorso, a giugno, Luigi l’ha lasciata per un’altra donna. Nonostante questo viene ancora a trovarla. Che rapporto avete mantenuto?
«Gli devo molto, non so quanti altri sarebbero riusciti a starmi accanto in un momento così difficile. Luigi ha sempre creduto in me. Ha avuto solo un momento di difficoltà, quando si è fatto vincere dalla paura di non riuscire a difendermi. Si è sentito impotente di fronte all’ingiustizia ed è precipitato in una grande sofferenza, dalla quale ora si è ripreso. Ma anche in quel breve momento è riuscito a restarmi sempre vicino, inviandomi lettere, fiori, messaggi di ogni tipo. Mi ha sempre fatto capire quanto io sia importante per lui e quanto speri che presto finisca questa dolorosa storia che mi ha colpito. Oggi posso dire che abbiamo mantenuto un bel rapporto, nonostante la sofferenza e il dolore. Anzi per certi aspetti questa esperienza ci ha rinforzati. E lui crede fermamente nella mia innocenza. Sa che non potrei mai essere un’assassina».

Ha amici?
«Il carcere seleziona le amicizie vere. La mia migliore amica è Marika, una persona splendida, in continuazione mi ha dimostrato tutto il suo affetto e il suo sostegno, soprattutto nei momenti per me più difficili. Mi ha dato la forza per andare avanti. Marika è molto più di un’amica, direi che è mia sorella minore. In questa tragedia, io ho la fortuna di avere intorno a me persone che mi vogliono molto bene e che me lo hanno dimostrato in più di un’occasione».

Prima del carcere, come trascorreva il suo tempo libero, quello fuori dall’ospedale?
«Amavo viaggiare. Era una passione che avevo in comune con Luigi. All’inizio della nostra relazione ricordo che abbiamo viaggiato molto in Italia, perché avevamo sulle spalle il mutuo della casa da pagare e non potevamo permetterci grandi spostamenti. Poi abbiamo iniziato ad affrontare viaggi più importanti. Siamo stati a New York, alle Maldive e in Brasile che, tra l’altro, è stato anche la mia ultima vacanza. Amavo il mare, amavo nuotare, ricordo le domeniche in moto con Luigi verso il mare, Marina di Ravenna. Adesso in carcere corro, ma non è la stessa cosa».

Erano questi i suoi modi per svagarsi, per vivere la vita?
«Non solo. Mi divertivo anche ad andare in montagna, dove avevo imparato a sciare. E poi la musica. Quante ore ho trascorso ascoltando i Duran Duran, gli Wham! e George Michael. Ho visto dal vivo Elton John e Jovanotti. E per uno dei compleanni di mia sorella Claudia le regalai due biglietti per andare a Firenze a vedere il concerto degli Spandau Ballet. Fu una serata bellissima. Come quelle trascorse allo stadio a tifare la Juventus».

I suoi parenti mi hanno molto parlato del suo rapporto speciale con suo nipote, Andrea.
«Lui è senza dubbio la più grande passione della mia vita. Appena staccavo dal lavoro non vedevo l’ora di trascorrere del tempo con lui. Lo portavo al cinema, al mare, in piscina a giocare. I suoi compleanni erano dei momenti di felicità per me, perché lo sorprendevo ogni volta con dei regali. Ero la classica zia giocherellona e senza regole».

È mai venuto a trovarla in carcere?
«Più di una volta. All’inizio, era ancora piccolo, cercammo però di non fargli capire dove mi trovavo. Oggi ha 12 anni, la situazione gli è stata spiegata e dunque prova a buttarla sullo scherzo. È un bambino molto sensibile e carino. Sono profondamente legata a lui».

Vede in Andrea il figlio che, per via della malattia, non ha potuto avere?
«Dopo la chemioterapia ho tentato per tre volte la fecondazione assistita proprio a Lugo, ma senza successo. Non so, a volte penso che ci sia un destino e che il mio era quello di non avere figli. D’altra parte forse è giusto così, non so come avrei reagito se a casa avessi avuto un figlio, cosa ne sarebbe stato di lui, come si sarebbe trovato a sapere che sua madre era in carcere per un’accusa così grave e così ingiusta. Ormai ho accettato l’idea che non tutti possano diventare genitori, anche se una speranza ce l’ho  ancora. Vorrei, se mi sarà possibile, tentare un’ultima volta. Comunque ha ragione, amo mio nipote immensamente, come se fosse mio figlio».

Come descrive la sua vita in prigione?
«Se mi fossi mai chiesta come ci si sente in carcere, ora ho la risposta. Il problema è che non me lo ero mai chiesta. E per una buona ragione: ci si sente da schifo. Oltre alla rabbia, alla frustrazione, alla paura, bisogna cercare di ambientarsi in un luogo fatto di sbarre, ferro, cemento. Un luogo dove la privacy non è più un diritto e vivi a contatto con altre detenute che ti guardano con diffidenza, dato che l’opinione pubblica ti ha già etichettato come la serial killer dal sorriso beffardo. Stare in carcere è difficile, soprattutto se sai di essere innocente».

Lavorare in carcere la aiuta a non pensare? Come si tiene impegnata?
«La vita qui dentro è fatta di piccole cose. Di giornate lunghe e ripetitive, scandite da orari ben precisi. Si cerca di tenersi impegnati il più possibile, affinché il tempo passi velocemente. Per questo cerco di gettarmi in ogni attività. Ho dato una mano in cucina a lavare e pulire, in altre occasioni ho lavorato nel reparto di smistamento dei capi da consegnare ai detenuti. Poi partecipo a tanti corsi e in chiesa leggo i salmi. Un aiuto speciale, quando ero ancora nel carcere di Forlì, è stato quello datomi da Lillo, un cagnolino che la direttrice aveva preso per noi come pet therapy. Era importante sapere di avere qualcuno da accudire, specialmente nelle lunghe giornate in cui non erano previsti colloqui con i parenti. Quando la mattina si aprivano le porte del carcere, era sempre il primo a venirmi a salutare. Sto imparando faticosamente a trasformare questo triste periodo della mia vita in qualcosa di positivo, a trovare il meglio dal peggio, a dare un senso a tutta questa sofferenza. E nonostante sia consapevole di non meritare tutto questo, sono sempre rimasta e rimango tutt’oggi fiduciosa nella giustizia».

Da quel 9 ottobre di tre anni fa come è cambiata la sua esistenza?
«È stata stravolta, violentata. Prima conducevo una vita serena, ora mi sostiene solo la speranza di uscire. Ho perso tutto da un giorno all’altro: la mia quotidianità, le mie certezze, le mie abitudini, il sentirmi viva. Naturalmente spero, ma non posso dire di averne la certezza, che presto riavrò ciò che ingiustamente mi è stato tolto. Per fortuna posso contare sul sostegno di tre pilastri fondamentali della mia vita: il mio compagno, la mia famiglia, la mia amica Marika. È tantissimo e per questo qui dentro mi sento tra le più fortunate. Molte detenute fuori non hanno nessuno, non vanno ai colloqui con parenti, nessuno gli scrive. Anche nelle situazioni peggiori capisci che c’è sempre qualcuno che è più sfortunato di te».

Che cosa sogna, oltre la libertà?
«Che mi sia restituita la reputazione. Vorrei uscire dal carcere avendo finalmente il riconoscimento che io non ho mai fatto del male a nessuno e che molti si sono sbagliati sul mio conto. Il mio sogno è che un giorno i figli della Calderoni mi guardino con occhi diversi, con gli occhi di chi ha capito che con la morte della loro mamma io non c’entro nulla. Non ho ucciso Rosa Calderoni né alcun altro paziente. Non c’è cosa più distante da me di un assassinio».