Contro gli Usa piegati dai suprematisti bianchi lo scrittore rilancia le divinità del suo romanzo 'American Gods', che ha ispirato l'omonima serie tv disponibile dall'1 maggio su Amazon. E dice: "La realtà è andata incontro al mio romanzo. Ora spero che qualche mio concittadino cambi prospettiva"
Il 19 giugno 2001 una nutrita folla si riuniva nella libreria Borders Books del World Trade Center per incontrare Neil Gaiman, pronto a firmare per i fan una copia del suo ultimo romanzo, “American Gods”, storia della lotta tra gli antichi dèi, portati negli Stati Uniti dagli immigrati, e le divinità moderne: la tecnologia, i media, il denaro. «Quel tour di presentazione», racconta all’Espresso Gaiman, acclamato autore inglese, tra romanzi e fumetti, di titoli come “Sandman” e “I ragazzi di Anansi”, «si concluse il 9 settembre. Solo due giorni dopo quella libreria non esisteva più e il mondo sarebbe cambiato per sempre».
Il motivo di tornare a parlare del volume (edito in Italia da Mondadori) è l’arrivo dal primo maggio dell’omonima serie televisiva, che sarà disponibile in otto episodi anche in Italia per gli abbonati al servizio Amazon Prime Video. Nella trasposizione per lo schermo Shadow (l’attore di colore Ricky Whittle) esce di prigione e scopre che la moglie (Emily Browning) e il suo migliore amico (Dane Cook) sono morti. Senza affetti e senza impiego, durante il viaggio di ritorno a casa viene avvicinato dal misterioso Mr. Wednesday (un magistrale Ian McShane), che gli offre un lavoro di autista-bodyguard.
Dopo avere accettato scopre però di essersi messo nelle mani di Odino, il dio norreno che vuole riunire i colleghi ormai invecchiati come lui, per sconfiggere le divinità avversarie, arrivate nella vita delle persone col progresso. E così guardare la serie vuol dire fare un viaggio antropologico nell’origine di miti come la regina di Saba, la misteriosa divinità slava ?ernobog, l’egizio Thot, e altri ancora. Naturalmente l’aspetto fantastico è solo una scusa per imbastire un ritratto allegorico dell’America, a partire dalla sua fondazione come nazione di gente arrivata da altri luoghi del pianeta: non a caso sovente la puntata si apre con spaccati di immigrazione, come quella dei Vichinghi, portatori della loro cieca ferocia, o quella più significativa degli schiavi africani, che nello show vengono aizzati dal loro dio Anansi a ribellarsi e dare alle fiamme l’imbarcazione su cui sono incatenati.
«L’ispirazione per il romanzo viene dal fatto che anche io sono un immigrato», racconta Gaiman. «Nel 1992 mi sono trasferito a New York, e col tempo mi sono reso conto di vivere in un Paese più grande e strano di quanto avessi immaginato, e di non riuscire a comprenderlo. Mi affascinava il meccanismo per cui ci si aspetta che chi ci mette piede abbandoni la cultura di provenienza e, immergendosi nel melting pot, ne esca cittadino americano. Questo mentre in Canada o in Europa ciascuno può conservare le proprie tradizioni. Ciò che mi colpisce è come i temi trattati nel libro siano più rilevanti oggi di quando è stato pubblicato. L’immigrazione e la religione all’epoca non erano nel dibattito politico, ma dopo l’11 settembre la realtà è sembrata andare incontro al mio romanzo, anziché allontanarsene». Per una curiosa coincidenza il tema della serie tv sembra perfetto ora, a pochi mesi dall’insediamento di Trump. «La sua presidenza è una fantastica cornice nera in cui esporre la mia opera, anche se sarei molto più felice con una guida della nazione diversa», dice Gaiman. «Posso solo sperare che la serie aiuti a cambiare il punto di vista di qualche mio concittadino. Perché la vera tragedia, oltre che paradosso in questa nazione resa più ricca dalle diverse culture di chi l’ha formata, è come molti siano davvero convinti che i nuovi arrivati la distruggeranno».
La chiacchierata con Gaiman non può che scivolare dall’attualità alle divinità odierne, che dominano la cultura non solo americana. «Una delle più spaventose è la tecnologia, che nella serie abbiamo aggiornato rispetto al romanzo: nel 2001 era personificata da un nerd grassoccio che stava nascosto in uno scantinato, oggi è un giovane alla Mark Zuckerberg, elegante e audace, perché i computer non sono più oggetti sgraziati da nascondere, ma elementi d’arredamento. Molti pensano che oggi Facebook, Google o Twitter siano le divinità cui tutti ci prostriamo, ma io li paragono ai templi, dove la gente si raduna, mentre il dio che mi spaventa di più è lo smartphone: basta vedere la gente che se ne va in giro con la testa china sul display, quasi in segno di adorazione. A questo oggetto ormai molte persone danno in sacrificio ciò che hanno di più prezioso: il tempo e la propria attenzione».
Se si passa a parlare delle divinità della cultura pop con cui questa serie tv si confronta, non si può non fare riferimento ai supereroi, divenuti dominatori incontrastati dell’industria dell’intrattenimento, capaci di catalizzare i grandi budget hollywoodiani e, nonostante l’inevitabile ripetitività di trame e personaggi, anche il box office. «I supereroi non sono certo paragonabili alle divinità greche o a quelle antiche di “American Gods”, perché nessuno si aspetta che Iron-Man o Capitan America intervengano davvero nella propria vita. Ma non c’è dubbio che i fumetti siano diventati una delle mitologie dei nostri tempi e forse una delle più positive», dice Gaiman, «per esempio di fronte ad altre più pericolose, come quella dei gruppi neonazisti».
Per i fan del genere in effetti non c’è che di deliziarsi. L’estate cinematografica americana e di rimbalzo anche quella di casa nostra sarà scandita dall’uscita periodica di un supereroe dei fumetti: il 25 in Italia arriva “Guardiani della Galassia Volume 2”, che riporta in auge la brigata di ex galeotti e difensori spaziali puntando sull’ensemble, la comicità, gli effetti speciali. Poi il primo giugno sarà la volta di Wonder Woman, che arriva al cinema dopo vent’anni di tentativi andati a vuoto, forse perché lo spirito originario del fumetto del 1941, in cui la guerriera Amazzone incarnava un messaggio femminista, è stato a lungo considerato sorpassato.
Curioso che anche lei, come i vecchi dèi di “American Gods”, appartenendo alla mitologia greca sia un’intrusa, oltreché donna, in un mondo dominato per lo più da personaggi maschili a stelle e strisce. Il 6 luglio poi sarà la volta del newyorkese Uomo Ragno che arriverà al cinema con “Spider-Man: Homecoming”, un film che ben rappresenta quanto queste divinità in calzamaglia presidino da tempo l’immaginario post 11 settembre. È stato proprio “Spider-Man” nel 2002 a riportare in auge i fumetti al cinema, dopo anni di insuccessi. Ma il film in arrivo a luglio, in cui il personaggio è molto giovane e inesperto, segna già la seconda ripartenza della serie (o “reboot” come viene chiamata in gergo), dato che la prima è avvenuta nel 2012. A novembre poi ritornerà Thor, ispirato all’omonima divinità norrena, insieme alla Justice League, supertruppa composta tra gli altri da Batman, Superman e la stessa Wonder Woman. Chi potesse ritenersi sazio dovrebbe sapere che entro il 2020 usciranno altri 22 titoli sui supereroi. «Hollywood continuerà a sfruttare il filone finché la bolla non scoppierà», dice Gaiman «e allora forse bisognerà attendere altri vent’anni per rivederli al cinema».
Con la speranza di rimandare quel momento il più a lungo possibile, Marvel, la casa editrice (e ormai cinematografica) di maggior successo, ha tentato di diversificare l’offerta, puntando per il grande schermo su eroi meno conosciuti come l’africano Pantera Nera, il minuscolo Ant-Man o l’aviere donna Capitan Marvel. Ma non è detto che sarà sempre così: Ant-Man è tra i personaggi che hanno incassato meno al cinema, e la scorsa settimana David Gabriel, vicepresidente delle vendite del gruppo editoriale, ha attribuito il calo del successo degli albi all’eccessiva diversificazione dei personaggi, che ha visto comparire tra i supereroi in anni recenti donne, neri, musulmani, in rappresentanza delle cosiddette “minoranze”. «Abbiamo sentito dire che vendiamo meno», ha dichiarato Gabriel, «perché la gente non vuole vedere le donne nel ruolo dei supereroi e rifiuta di comprare storie che non abbiano al centro i classici personaggi Marvel». L’affermazione ha scatenato innumerevoli attacchi all’azienda, ma è la sintesi di quello che i rivenditori hanno lamentato nell’annuale convention loro dedicata, e sembra far parlare la pancia del Paese, quella che vuole la supremazia bianca e ha votato Trump.
Se anche il cinema e la tv si adeguassero, le nuove divinità americane della cultura pop finirebbero per avere tutte l’aspetto di maschi bianchi, biondi e muscolosi. «Il rischio non è poi così remoto», spiega Gaiman, «perché la pratica del whitewashing (scritturare un attore bianco per un ruolo originariamente nero o di altra etnia, ndr.) è all’ordine del giorno. Anni fa un regista molto famoso mi propose di comprare i diritti de I ragazzi di Anansi e mi rivelò che avrebbe affidato tutti i ruoli neri ad attori bianchi, perché a suo dire, al pubblico di colore non piaceva il fantasy. Perciò mi sono rifiutato di venderglieli. E stavolta mi sono assicurato che il creatore della serie, Bryan Fuller (lo stesso di Hannibal, ndr.) scritturasse un interprete di colore per il protagonista, la cui etnia nel romanzo è mista». Che poi, come sanno bene i lettori del romanzo, Shadow si rivelerà essere il figlio di Odino: come a dire che, quali che siano oggi gli dèi in America, quelli di domani saranno meticci.