L'Espresso ha passato una settimana a bordo di una delle imbarcazioni di Moas ed ha assistito ad alcune operazioni di salvataggio. Questo è quello che abbiamo visto

Tutti ne parlano: fiumi di dichiarazioni ?di esponenti politici, rappresentanti istituzionali, opinionisti in tivù. Pochi, però, sono saliti a bordo di una delle navi delle Ong che ogni settimana salvano centinaia di vite nel Mediterraneo. L’Espresso è tra questi: ?e chi scrive è stato per otto giorni proprio su una imbarcazione del Moas, una delle organizzazioni recentemente messe sotto la lente di ingrandimento.

Per la precisione, sulla Topaz Responder una delle due navi che fino a dicembre erano a disposizione della fondazione maltese; un’imbarcazione affittata, ?a differenza dell’altra - la Phoenix - tuttora attiva e di proprietà.

A bordo della Responder abbiamo avuto libero accesso a ogni scompartimento: dalle cabine dell’equipaggio alla plancia di comando, dall’ambulatorio medico fino ai motoscafi ad alta velocità. Il tutto sempre senza restrizioni e, ovviamente, anche durante le operazioni di recupero.

A capo del gruppo di salvataggio - quello che in termine tecnico viene definito con l’acronimo inglese Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) - c’era John Hamilton, un marinaio cinquantenne ?che per 26 anni ha servito nella marina maltese. È stato lui a spiegarci le “regole di ingaggio”: «Il più delle volte ?il nostro radar avvista il segnale di una piccola imbarcazione diretta a nord. A quel punto la raggiungiamo, verifichiamo di che imbarcazione si tratta e, se ha bisogno di aiuto, chiamiamo immediatamente Roma per chiedere ?il permesso di intervenire. In altri casi, invece, i trafficanti lasciano sul barcone un telefono satellitare con il numero di telefono delle emergenze. A quel punto sono gli stessi migranti che chiamano Roma per chiedere soccorso».

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Perché Roma? Perché è nella capitale italiana che ha sede il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo. È a Roma che si prendono le decisioni, ?è Roma che decide chi può intervenire ?e quando. E spesso non lo può fare nessuno: è il caso del naufragio del 18 aprile 2015. Quel giorno i migranti hanno chiamato il numero di emergenza, la guardia costiera ha fatto il possibile per organizzare l’intervento ma purtroppo la prima nave a disposizione era un mercantile ed è arrivato troppo tardi.

Durante la nostra presenza a bordo della Responder è successo che a chiedere l’intervento del Moas fosse un aereo della Guardia costiera spagnola in missione sul Mediterraneo per conto dell’Unione europea. È stato un militare dell’aeronautica spagnola ad avvisare ?la Responder e a comunicare ?a comandante e primo ufficiale le coordinate verso cui dirigersi.
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Un’altra volta, invece, un barcone ?era sfuggito ai radar: gran parte dell’equipaggio era in mensa e un’infermiera, sedendosi al tavolo, ha visto un gommone fuori dall’oblò. Circa duecento persone alla deriva da oltre cinque giorni. Senza più cibo, senza acqua ma, soprattutto, senza benzina. Se quel giorno la corrente del mare non li avesse spediti contro il nostro scafo, probabilmente avremmo avuto altri morti di cui nessuno avrebbe saputo niente.

Sempre Hamilton ha spiegato all’Espresso che in passato è avvenuto che fosse necessario un intervento in acque territoriali libiche ma, afferma, «questi casi sono stati rarissimi e ci siamo mossi sempre e solo dopo l’ok ?di Roma e della guardia costiera libica». Tutto viene fatto seguendo leggi e trattati internazionali e, almeno negli otto giorni in cui L’Espresso è stato a bordo, nessun trafficante ha provato a comunicare direttamente con la nave. Anzi, è successo che in seguito a un salvataggio il personale a bordo del Topaz Responder abbia notato la presenza di una persona sospetta. Immediatamente gli è stato chiesto di mettersi in disparte e arrivati in Italia è stato fatto scendere per ultimo, dopo aver avvisato il personale di terra delle forze dell’ordine, a cui è stato consegnato.

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Quello che succede dopo i salvataggi è procedura standard: l’equipaggio divide per gruppi i migranti salvati e a ognuno viene dato un braccialetto in base all’ora e al giorno in cui sono stati soccorsi. A ognuno viene fatto un rapido screening sanitario, tutti vengono perquisiti e tutti, appena mettono piede in Italia, vengono affidati ai sanitari ?e alle forze dell’ordine. I medici italiani salgono a bordo prima di far scendere ?a terra chiunque sia sulla nave. Il vascello alza la bandiera gialla della “quarantena” appena entra in porto e può abbassarla, dando il via allo sbarco, solo dopo l’okay del medico responsabile.

Questo, in sintesi, è quanto L’Espresso ha potuto documentare dopo 8 notti a bordo di una delle navi delle principali organizzazioni non governative che lavorano nel Mediterraneo per salvare le vite di chi cerca di arrivare in Europa via mare. Senza sicurezza, con ancora negli occhi il terrore di quello che ha vissuto nel viaggio via terra, di quello che gli hanno fatto passare gli aguzzini che organizzano questi viaggi, delle torture nei centri nascosti sulla costa libica. Testimonianze, queste sì, messe agli atti di inchieste anche in Italia e supportate da cicatrici e testimoni.