Telecomunicazioni, trasporti, assicurazioni e calcio. Dalla Francia alla Cina tutti vengono a fare shopping di brand e imprese nel nostro Paese. Ecco i casi più clamorosi (e qualche esempio in controtendenza)

Bollorè, Berlusconi con Li Yonghong, il presidente dell'Inter Suning
Un tormentone delle cronache economiche degli ultimi anni va sotto il titolo: un altro pezzo d’Italia che se ne va. In questo sottogenere vengono rubricate le aziende nazionali che finiscono in mano straniere. Chi si stracciava le vesti e piangeva il futuro di un’Italia colonizzata, per lo più da tedeschi e francesi, veniva redarguito dai sacerdoti del liberismo: è il mercato, bellezza, e tu non puoi farci niente.

Poi Donald Trump ha mostrato al mondo le sue stimmate neoprotezionistiche e il dubbio si è diffuso. L’unica scelta possibile per le imprese italiane è accettare una sicura, e nemmeno troppo lenta, colonizzazione dalle maggiori potenze dell’Unione? E c’è ancora tempo per invertire la rotta, se non con il protezionismo, con un po’ più di dirigismo politico alla francese o alla tedesca?

La casistica appare sfavorevole. Il dirigismo ha fallito in grande stile nel settore dove era imperativo applicarlo, il debito pubblico arrivato al 132,6 sul pil secondo gli ultimi dati Eurostat di fine aprile. La speculazione internazionale è pronta a rinverdire il nefasto 2011 che segnò il record dello spread Btp-Bund a quota 575 e a sfruttare ogni situazione di instabilità politica.

Passando dalla finanza pubblica all’impresa privata, il sistema Italia si è mostrato più realista del re nell’applicare l’ortodossia del libero mercato e della non ingerenza della politica. Per mesi il board del Monte Paschi è andato a caccia di nuovi azionisti stranieri, da George Soros agli emiri del Qatar, fidanzati a loro insaputa con la vacillante Rocca Salimbeni. Poi lo Stato ha dovuto tappare il buco.

La Piccola Bretagna
L’ultimo caso di salvagente istituzionale lanciato a un’impresa considerata imprescindibile per la Repubblica è quello di Agcom. L’autorità per le comunicazioni è intervenuta a sostegno di Mediaset dopo la scalata dell’ex alleato Vivendi. Dopo la fiammata invernale, il braccio di ferro fra Silvio Berlusconi e il papa straniero Vincent Bolloré è in fase di stallo. Il finanziere bretone si è concesso un timeout per dedicarsi al suo maggiore interesse in Italia, la Telecom, dove il 4 maggio la sua lista ha vinto il voto in assemblea con una maggioranza ben più risicata di quella della presidenziali Macron-Lepen (49,37 dei voti contro 49 per cento di Assogestioni). Con la governance di Telecom saldamente in mano, Vivendi ha una carta in più per convincere la Fininvest a trattare e ad ampliare l’orizzonte asfittico della tv commerciale verso nuovi scenari che includono la creazione di una Netflix europea.
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Il fronte Generali, dove Bolloré è presente attraverso la sua partecipazione in Mediobanca, senza contare il suo protetto Philippe Donnet, amministratore delegato del Leone, rimane in sospeso dopo la scalata abortita da parte di Intesa Sanpaolo. Fallita l’aggregazione made in Italy, il gruppo triestino ha riaperto la pista internazionale che, a livello continentale, è dominata dalla tedesca Allianz e dalla francese Axa, entrambe su dimensioni all’incirca triple rispetto a Generali. Anche qui molto è cambiato dai tempi in cui si celebrava la media e piccola impresa come motore dell’economia italiana. In un mondo di colossi non si è mai abbastanza grandi, come dimostra Fca che dopo la fusione tra Fiat e Chrysler continua a valutare alleanze.

Bandiera a mezz’asta
Dopo Mps e Mediaset, il terzo banco di prova dell’interventismo statale è, in effetti, l’ennesimo remake di un film che nessuno voleva rivedere.

L’Alitalia è il caso di scuola di una politica debole, che marcia sui binari della furbata all’italiana e del complesso di inferiorità, sempre tesa - come nel vecchio sketch di Carlo Verdone - ad applicare slogan autolesionistici.
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L’alleanza con Etihad, una società che agisce in base ai principi dello statalismo monarchico, non poteva avere esiti diversi dalla catastrofe. La compagnia di bandiera di Abu Dhabi ha utilizzato gli aerei tricolori mezzi vuoti come spazi da riempire con i viaggiatori in overbooking delle sue tratte a lungo raggio dall’Asia, incassando il grosso dei ricavi del code-sharing e scaricando le perdite sulla società italiana.

Come contentino, i piloti italiani hanno ottenuto rotte lunari come la Roma-Santiago del Cile dove in economy ogni passeggero ha a disposizione un paio di file vuote per godersi le 15 ore di viaggio con un comfort da prima classe e prezzi a partire da 471 euro (meno di 4 centesimi per chilometro). Troppo anche Mohammed al Nahyan, il principe reggente degli Emirati, che pochi giorni fa ha ordinato la rimozione dell’ad James Hogan dalla guida di Etihad.

Intanto, negli scali emergenti come Orio al Serio e Catania le low-cost, Easyjet e Ryanair in testa, hanno potuto fare concorrenza ad Alitalia anche grazie ai contributi e agli incentivi pagati dalle società di gestione aeroportuale, spesso controllate da enti locali.

Esclusivo
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Così il denaro pubblico di Comuni e Province ha sostenuto imprenditori privati per mettere alle corde Alitalia in modo che si perdesse altro denaro pubblico. In compenso, ci siamo goduti le camicie a vampe rosse delle assistenti di volo e, come misura estrema quando i buoi erano già volati via dall’aereo, il taglio degli snack (dolce o salato?) sulle tratte a corto raggio. Il delitto perfetto.

Resistere con il cemento
Il protezionismo strisciante che ha sostenuto le imprese francesi e tedesche ha avuto un’applicazione italiana nel settore delle concessioni e delle grandi opere.

Con il meccanismo sull’adeguamento automatico delle tariffe autostradali varato dal centrodestra nel luglio 2008, i re dell’asfalto hanno messo abbastanza benzina nel serbatoio da invertire il ruolo di preda in quello di cacciatore.

Autostrade-Atlantia punta a diventare azionista di riferimento della spagnola Abertis, attraverso un’Opa amichevole da 15 miliardi di euro. I rapporti si sono invertiti rispetto a 11 anni fa quando Abertis stava per acquisire la società dei Benetton e venne fermata dal governo Prodi. Di recente il gruppo iberico ha comprato la Brescia-Padova (Serenissima) e la Valdastico dagli enti locali.

Beniamino Gavio si è preso Ecorodovias in Brasile e tenta di allargarsi su un mercato che si è aperto agli investitori esteri giocoforza considerata la carenza di autostrade e le scarse possibilità di costruirle a costo di ulteriore deficit per il governo di Brasilia o per i singoli Stati della federazione.

Per i colossi dell’edilizia il discorso è simile. Per anni sono stati sorretti dagli incassi straordinari di un contenzioso che agiva in coordinamento perfetto con il meccanismo della gare vinte al massimo ribasso. I vari Salini-Impregilo, Condotte, Astaldi, non hanno sprecato l’occasione e hanno diversificato all’estero con commesse miliardarie, dal canale di Panama all’Europa orientale.

Imprese francesi e calcio cinese
Dove possono colpire ancora gli invasori? La risposta è banale: dovunque si presenti l’occasione. Nello scacchiere europeo dominato dall’ineluttabile asse Francia-Germania, i francesi sembrano destinati ad acquisire sempre più peso in Italia. Lo hanno già fatto nel decennio 2006-2016 acquistando, secondo dati Kpmg, 185 aziende per 49,8 miliardi (con il record proprio l’anno scorso) mentre nello stesso periodo gli italiani compravano 97 aziende francesi per 7,6 miliardi di euro. Affinità fra culture neolatine, anche se la disparità è evidente.

Nel comparto germanico, invece, i tedeschi sono impegnati ad approfittare del fall-out di Brexit. Le grandi banche internazionali stanno rafforzando i loro centri operativi a Francoforte. Standard chartered ha appena annunciato di volere aprire il suo nuovo hub europeo nella città tedesca. Jp Morgan Chase sta per trasferire centinaia di persone dal Regno Unito alle sue filiali di Dublino, del Lussemburgo e della stessa Francoforte. Anche Goldman Sachs e Morgan Stanley starebbero progettando di spostare il loro quartiere generale europeo da Londra ai quartieri dove ha sede la Bce.

Ovviamente non ci sono solo gli investitori europei a puntare il mirino sulle debolezze italiane. La settima industria italiana, il calcio, è già stata investita ai massimi livelli dai capitali extracomunitari, con le milanesi passate di mano e affidate a businessmen più o meno noti venuti dalla Cina. Oltre a Milan e Inter, la serie A esterovestita del prossimo anno può contare sulla Roma di James Pallotta. In serie B si vedranno il Venezia dell’ex romanista di New York Joe Tacopina e il Palermo appena retrocesso, che sta vivendo una riedizione in formato ridotto del closing milanista, con un altro frontman italoamericano, Paul Baccaglini, e capitali di origine non ben identificata.

Mentre incombono le aste per i diritti tv sulla Champions league e sul campionato, con la regia cinese dell’advisor Infront, i padroni indigeni del football nazionale si stringono a coorte sperando in una nuova iniezione di denaro. E se arriverà da network o investitori esteri, perché no? Di strategico in Italia non c’è più nemmeno il pallone.