Nel giugno 1967 Amos Oz aveva appena compiuto i 28 anni, abitava nel kibbutz Hulda ed era soldato riservista nel Sinai. Israele stava vincendo una guerra, chiamata poi la Guerra dei sei giorni, contro i suoi vicini arabi: Egitto, Giordania e Siria.
Per i tre Paesi sconfitti, l’esito dei quel conflitto fu devastante: l’Egitto, le cui forze aeree furono distrutte in poche ore, perse la Penisola del Sinai e il suo presidente, simbolo del nazionalismo panarabo e del riscatto anticolonialista Abdel Gamal Nasser mai più riuscì a recuperare il suo prestigio e carisma.
La Siria venne fuori dalla guerra mutilata dalle Alture del Golan, una specie di balcone che domina il Nord di Israele e da dove era facile sparare sui kibbutz sulle sottostanti rive del Lago di Tiberiade. La Giordania dovette rinunciare alla sponda occidentale del fiume Giordano, alle sue città, da Hebron a Betlemme e alla parte est di Gerusalemme, compresi i luoghi sacri per le tre religioni.
E Israele? Israele che nel 1967 temette una seconda Shoah, l’annientamento di tutta la popolazione (minacciato da Nasser nei discorsi a Radio Cairo), fu travolto da un’ondata di euforia. I giovani generali, nati per lo più in Terra d’Israele, lontano dai patimenti e dalle umiliazioni della Diaspora, seppero vincere. Ma soprattutto, i luoghi cardine dell’immaginario ebraico: il Muro del Pianto, la tomba di Rachele, le tombe dei patriarchi a Hebron finirono sotto il controllo degli israeliani. Ecco, 50 anni fa, stava finendo la storia di un piccolo Paese socialista, un po’ povero, e che godeva delle simpatie delle sinistre europee e cominciava invece una di uno Stato che domina su un altro popolo (i palestinesi), sottoposto all’egemonia culturale dei coloni e che non è capace di fissare le proprie frontiere. Siamo venuti a casa di Amos Oz, per parlare di questi ultimi 50 anni e del loro significato.
Cosa è cambiato in questi 50 anni?
«Tutto. Nel 1967 lo Stato d’Israele era una specie di esperimento. Oggi non più. Ma mi preme dire un’altra cosa. Vede, normalmente gli stati nascono in conseguenza della storia o della demografia. Israele invece è nato come risultato di un sogno. E ogni cosa che nasce dai sogni, nel momento in cui il sogno si avvera, diventa una delusione. L’unico modo per conservare il sogno puro, per non sporcarlo, è non realizzarlo. Vale in tutti gli ambiti della vita umana. Vale per la scrittura di un romanzo, per un viaggio esotico, per una fantasia sessuale. La delusione che proviamo per il volto di Israele non sta nella natura di Israele ma nella natura dei sogni».
Un incubo quindi?
«Dipende per chi. Per gli oltre tre milioni di palestinesi Israele è un incubo. Ma non solo per loro. L’occupazione corrompe. Corrompe sia l’occupante che l’occupato. Prendi un bravo ragazzo, con un’educazione liberale e socialdemocratica e mettilo a fare il re di un villaggio arabo. Affidagli il compito di decidere a chi dare o negare il permesso di andare in un ospedale; aprire una drogheria; poter trovare un lavoro. Un ragazzo che si trova in una situazione simile, rimane corrotto per il resto della sua vita. Credo di essere stato il primo ad averlo detto, poche settimane dopo la guerra. Poi mi citò Yeshayahu Leibovitz (un grande filosofo, ebreo ortodosso, contrario all’occupazione e alla venerazione dei luoghi sacri; Ndr). Ma forse non importa chi fu il primo».
Invece importa, perché in mancanza di ideologie contano le biografie.
«Lasci stare. L’importante è che cinquant’anni di occupazione hanno tirato fuori dalle persone il peggio: odio, razzismo, disprezzo, brutalità. Ma attenzione, anche se stiamo parlando di Israele, ciò che dico è una regola universale; vale per tutti in tutto il mondo».
Torniamo al 1967. In Israele vivono due milioni e mezzo di ebrei. Il Paese è dominato dal movimento laburista, laico, per il quale i simboli religiosi, in apparenza, non sono importanti. Si vuole costruire un uomo nuovo, soldato e agricoltore e non piangere e pregare a Gerusalemme in attesa del Messia. La redenzione sta nel lavoro delle braccia, nel piombo delle pallottole, non nelle sinagoghe e luoghi sacri. Poi le sacre pietre vengono conquistate e all’improvviso l’immaginario religioso si fa dominante: il Muro del Pianto diventa il centro dell’esperienza esistenziale e nazionale. Cosa è successo?
«La sua domanda è sbagliata. O meglio, è sbagliata la parola: “all’improvviso”. L’immaginario religioso era sempre presente nel discorso laburista sionista. Già negli anni Venti, Gershom Scholem, il grande studioso della Cabala metteva in guardia i socialisti dall’uso del lessico messianico. Scrisse che giocavano con il fuoco. Parlavano di “Redenzione”, “Epoca del Messia”. “Terzo Tempio”. Erano parole e linguaggi utili a far propaganda tra gente semplice. Parole che ogni ebreo aveva imparato in sinagoga o in casa paterna e che rimandavano alle preghiere e ai sogni del “Tempo dopo il Tempo”. Il guaio è che le parole e i linguaggi hanno una dinamica autonoma. Ecco cosa è successo».
Sta dicendo che un sogno, un auspicio vecchio duemila anni: l’anno prossimo a Gerusalemme che significava l’anno prossimo la Redenzione e non era un programma di edilizia o di conquista militare immediata, ha invece assunto una vita sua?
«I fondamentalismi stanno crescendo ovunque: tra cristiani, musulmani e anche tra di noi. C’è una malattia nuova e che credo di aver scoperto. Chissà se non merito il Nobel per la Medicina. Io quella malattia la chiamo in ebraico “shakhzeret”, in latino rudimentale “reconstructivitis”».
I sintomi?
«Un giorno incontro un intellettuale palestinese a Parigi. Ha cinquant’anni insegna all’università. Mi dice che è di Lifta, un villaggio vicino a Gerusalemme. Gli chiedo: come puoi essere di Lifta, se il tuo paesino è stato raso al suolo nel 1948? Mio nonno e mio padre erano di li, mi risponde. Voglio tornare a Lifta, e non mi importa se il mio presidente sarà un ebreo né mi interessa il colore della bandiera Lì c’erano case in pietra, il pozzo, le capre, gli uliveti, i trecento abitanti».
Morale?
«Non c’è’ ritorno a Lifta, neanche se tutti gli ebrei avessero lasciato la Terra d’Israele. Se ricostruissero Lifta, ci sarebbero 25 mila discendenti degli abitanti; una città con semafori, palazzi di cinque piani, due supermercati e problemi di parcheggio. Quell’intellettuale vuole ricostruire nello spazio qualcosa che si è perso nel tempo».
Davvero lei pensa di rinunciare alla nostalgia?
«La nostalgia serve a scrivere romanzi, fare film, non a essere usata come se fosse un bancomat».
E per quanto riguarda Israele?
«Mettiamo che domani mattina Abu Mazen e Ismail Haniye, il capo di Hamas a Gaza, si presentino a Netanyahu con la chiavi della Spianata delle Moschee a Gerusalemme (e il luogo dove sorgeva il Tempio, ndr) in mano e dicano: abbiamo capito che la spianata è vostra. Dateci tempo per spostare le nostre moschee e fate il vostro Tempio. Bene, ai tempi di re David in quel luogo venivano 25 mila pellegrini. Oggi verrebbero milioni. Dove mettiamo i bagni? E i parcheggi? Anche i nostri fondamentalisti che sognano il Terzo Tempio sono malati di reconstructivitis».
Prima ha detto che sul piano del lessico il sionismo ha sempre sofferto di questa malattia.
«Interpretazione errata. I miei genitori non sono venuti qui guidati dal detto “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Sarebbero rimasti volentieri in Polonia, Lituania, Russia, a ripetere per altri duemila anni quella frase rituale. Sono venuti qui perché in Europa hanno cominciato a uccidere gli ebrei. La “reconstructivitis” era solo il vestito che è stato dato al bisogno di trovare un posto dove vivere».
Bauman lo chiamava retrotopia, un’utopia rivolta al passato.
«Un intellettuale di Ramallah mi disse: “guardavamo le luci da lontano, pensavamo fossero di Giaffa. Poi scoprimmo che erano invece della Grande Tel Aviv”».
Parliamo allora dei palestinesi. A visitare le città della Cisgiordania si ha l’impressione di una certa normalità. Come se l’occupazione non fosse più un trauma.
«Guardi la mia mano destra. Settant’anni fa questa mano gettava pietre su soldati britannici a Gerusalemme. Ora dal punto di vista economico c’era prosperità. I britannici hanno costruito strade, edificato ospedali, hanno messo in piedi una rete di scuole. Erano occupanti molto migliori di quanto lo siamo noi nei confronti dei palestinesi. Ma ogni volta che passavo con mio padre accanto a un soldato britannico, non un inglese ma un neozelandese 19enne vestito di short, mio padre istintivamente chinava la testa. E io mi vergognavo e per questo buttavo le pietre».
Essere sovrani per aver dignità?
«Nel 1948 a Gerusalemme arrivò la prima moneta israeliana coniata a Tel Aviv. Era bruttissima a vedersi. Mia nonno la prese in mano, aveva lacrime negli occhi, la baciò e la benedisse, pur essendo un uomo laico. Io non bacio le monete E sa perché? Perché mio nonno lo fece per me. Ecco, i palestinesi hanno bisogno di un nonno che baci la moneta e un nipote che non ne ha più necessità».
E così ha spiegato che la sovranità nazionale è la condizione per liberarsi dal nazionalismo. Torniamo allora al 1967. Poche settimane dopo la Guerra dei sei giorni, in un Paese in preda all’euforia nazionalista e con una sovranità ancora incerta, lei con alcuni intellettuali dei kibbutz pubblica un libro intitolato “Siakh lokhamim” (conversazione dei combattenti). Sono testimonianze dei ragazzi dei kibbutz appunto, che raccontano gli orrori della guerra e i problemi etici che hanno affrontato da soldati, educati nello spirito della sinistra.
«Sono stati mesi di una specie di religione militarista con i generali come grandi sacerdoti. Un popolo che per duemila anni è stato bastonato, all’improvviso si trovò in un mano il bastone e poteva picchiare altri: si immagina l’orgia sciovinista? Si rende conto quanto si gode nell’essere forte e poter umiliare l’altro? Noi volevamo raccontare invece che anche una guerra giusta (perché quella del 1967 fu una guerra giusta) è atroce».
Il libro è stato mutilato dalla censura militare. Sono stati tolti i racconti sulla fucilazione dei prigionieri di guerra egiziani, sulla distruzione di tre villaggi palestinesi, su ragazzi israeliani che si paragonavano (ingiustamente) ai soldati nazisti...
«I censori avevano un argomento forte. Il conflitto non era finito. Ci sarebbero state altre guerre. I nostri ragazzi sarebbero stati fatti prigionieri. Io non me la sentivo di prendermi la responsabilità per una ipotetica situazione in cui uno dei nostri figli venisse fucilato dagli egiziani perché io avevo svelato che noi abbiamo assassinato prigionieri egiziani».
Oggi come la pensa?
«Oggi non difendo quella posizione di allora e non saprei cosa avrei fatto di fronte alla censura».
Lei era soldato nel Sinai...
«Le racconto qualcosa di inedito. Il primo giorno di guerra sto seduto sulla sabbia di una duna. All’improvviso ci cadono addosso degli ordigni. Guardo e vedo che duecento metri più in là ci sono persone che io non conosco e che cercano di uccidermi. Non ho cercato il riparo, anche se avevo paura. Invece volevo chiamare la polizia.... Ecco, questa era l’unica reazione istintiva normale in guerra. Tutto il resto non era normale».
Nel 1967 tutti in Israele temevano una seconda Shoah...
«Io non pensavo alla Shoah, se non nel senso che occorresse lottare come dei leoni. Sapevo invece che se l’esercito egiziano fosse entrato nel mio kibbutz non ci sarebbe stata pietà per nessuno di noi. L’abbiamo visto nel 1948, durante la guerra dell’indipendenza. Era questo il ricordo».
Per i palestinesi il 1948 significa invece la Naqba, la distruzione dei villaggi; i 700 mila profughi...
«Vero, nel 1948 abbiamo compiuto una pulizia etnica: il 70 per cento dei palestinesi ha dovuto lasciare i territori da noi controllati. Ma loro hanno fatto una pulizia etnica più limitata nei numeri ma più radicale nella sostanza: a Gerusalemme est e in Cisgiordania non rimase neanche un ebreo».
Come vede il futuro? In Cisgiordania ci sono quasi 400 mila coloni....
«Per favore non mi parli di una situazione “irreversibile”. Irreversibile è una parola che mi irrita. La usa sia la destra estrema che la sinistra radicale per dire che israeliani e palestinesi non possono più separarsi e che quindi le uniche alternative sono o apartheid o Stato binazionale. Io invece sono abbastanza vecchio per sapere che non ci sono cose irreversibili. E del resto, Israele è nato tre anni dopo la chiusura di Auschwitz; un miracolo. Ho visto Sharon, l’uomo di destra, idolo dei coloni smantellare gli insediamenti nella striscia di Gaza; ho visto De Gaulle evacuare 800 mila coloni francesi dall’Algeria e Churchill smantellare l’impero britannico. L’irreversibile è solo la morte, e anche quella la devo ancora sperimentare, per esserne certo».