La Procura chiede di archiviare: impossibile trovare gli assassini. Ma il nostro dovere è cercare sempre. Oltre gli atti giudiziari
Se c’è un problema tra giornalismo, politica e magistratura - e c’è - è arrivato il momento di affrontarlo nei fatti. C’è qualcuno che ha il dovere di farlo, continuando a cercare. C’è qualcuno che, per come stanno messe le cose in Italia e a livello globale, deve scegliere adesso che strada seguire. Facendo ciò per cui, un giorno, scelse di fare questo mestiere: il giornalista. Una scelta che implica di dedicare la propria vita alla ricerca, anche ossessiva, di qualcosa che - con molta approssimazione - è chiamata “verità”. Questo qualcuno siamo noi giornalisti, prima di tutti. Proprio adesso quando accade un fatto, prevedibile e grave. Un fatto che tocca nel profondo il rapporto fra informazione e realtà e ancora di più la “separazione delle carriere” fra cronista e magistrato. Dogma che negli anni ha dato la sensazione di vacillare, sostituendo a volte - diciamo pure spesso - l’inchiesta giornalistica con un inseguimento western fra redazioni e procure.
Che succede in questo universo fatto di milioni di bugie, sfoghi emotivi, sentimenti di rabbia o di tifo che si sostituiscono all’analisi dei fatti, con il meccanismo che fu della magia contro la scienza? Che succede mentre nemmeno la prova fa più sorgere un dubbio nel lettore? Succede un semplice fatto di cronaca: ascoltiamo le dure e semplici parole di Luciana Alpi, madre di Ilaria, l’inviata del Tg3 brutalmente assassinata a due passi dall’amasciata italiana di Mogadiscio il 20 marzo 1994 assieme al suo operatore Miran Hrovatin.
Dice all’Italia e agli italiani “basta”, dice che se ne starà a debita distanza dai palazzi della giustizia dove ha passato quasi un quarto di secolo dalla morte della figlia. Questo dopo la seconda richiesta di archiviazione della Procura di Roma su quel barbaro omicidio, perché non siamo stati capaci di trovare un colpevole, una prova, qualcosa di solido. Quando tutti noi sappiamo che quell’omicidio è una melma vischiosa dentro cui sguazza, lordo ma libero, un pezzo del nostro Stato.
Vedremo come andrà a finire, ma c’è qualcosa che dobbiamo fare: se la giustizia si ferma, il giornalismo deve andare avanti. Anzi deve ricominciare a cercare. Perché questa sordida storia lega Italia e Somalia, criminalità e potere. È una storia dove questo Paese proietta ombre lunghe, che non è possibile per il giornalismo far scomparire levando la luce della ricerca della verità. Quelle ombre devono vedersi nitidamente, devono essere descritte, non possono ritrarsi nel buio con il tramonto delle indagini ufficiali.
Abbiamo oggi più che mai il dovere di descriverle nei dettagli e fare quello che è sempre stato, o avrebbe sempre dovuto essere, il nostro mestiere, il mestiere di Ilaria Alpi, morta per cercare pezzetti di una verità scomoda. Proprio quando il legame fra magistratura e giornalismo è al centro di dibattiti a volte surreali, proprio nel Paese dove una richiesta di archiviazione per qualche politico indagato fa gridare invece che allo scandalo al garantismo, dobbiamo riuscire ad andare là dove i giudici non vogliono o non possono andare. Perché credere alla fake news che nulla può più essere scoperto significa non soltanto offendere la memoria di Ilaria Alpi, ma demolire ancora di più la nostra professione. Significa infliggere a Ilaria una seconda morte e al nostro mestiere un colpo fatale.
L’impegno che L’Espresso si prende è di cercare ancora. Di andare là dove un giornalista dovrebbe sempre stare, in mezzo ai fatti, su quel crinale dove la giustizia, ci auguriamo suo malgrado, diviene per l’opinione pubblica ingiustizia. E come noi credo faranno molti altri colleghi. Non possiamo sapere se e cosa troveremo fra le ombre lasciate scivolare via, dolosamente in questi quasi venticinque anni. Ma siamo certi che non ci fermeremo. Perché la Verità per Ilaria è anch’essa un grande cartello giallo che deve essere issato in ogni luogo. Siamo noi a doverlo riempire di parole diverse da quella, brutta, che abbiamo sentito pronunciare ancora dallo Stato: fermiamoci!
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