"Ho scritto un post imitando i discorsi estremisti che stanno monopolizzando la narrazione di fenomeni come quello dell'immigrazione. E sono stato punito dal social network. Però il vero problema è che ci stiamo abituando a questo tipo di censura"
Ho scritto un post provocatorio su Facebook, cercando di replicare i modi comunicativi, i retropensieri, le ossessioni dell'egemonia culturale montante di destra in Italia. Il razzismo, l'ignoranza che si ingrossano l'un l'altra, che insieme riflettono e producono consenso.
L'idea era replicare un colloquio immaginario di un italiano mediaticamente terrorizzato dall'"invasione" con la sua coscienza, stendere uno sfogo finalmente sincero del suo pensiero — l'attimo in cui finalmente il razzista vede con chiarezza l'oggetto del suo odio. Giocando amaramente sui neologismi della nuova destra — "buonisti", "taxi dei mari" — lo chiamavo "migranti in cachemire" e "radical chic dei mari".
Scavando nei pregiudizi e nel passatismo demente che porta fino al Duce, scrivevo: "non si rendono conto", gli africani, "che stavano meglio quando erano schiavi delle potenze coloniali?". Pizzicando lo schifoso cinismo dell'uomo bianco "superiore" facevo sospirare quella coscienza — "non ci sono più i negri di una volta" — e proponevo mirabolanti soluzioni trumpiane: "se solo alzassimo un muro alto quaranta metri nel mezzo del Mediterraneo!".
Insomma, satira. Denuncia sociale. Rabbia sublimata. Ci sono molti modi di chiamare quelle poche righe scritte di getto. Per Facebook, invece, ce n'è uno solo: contenuto illecito. Così una mattina, quattro giorni dopo la pubblicazione del post, mi sveglio e il social network mi comunica che è stato rimosso, perché "non rispetta gli Standard della comunità di Facebook". Ho violato le regole del gioco, insomma.
Non so perché, non so come, quanto, su segnalazione di chi, secondo quale processo chi ha deciso che le mie parole violassero il limite del consentito, ma lo hanno fatto. Il mio punto non è scandalizzarmi, tuttavia, per l'accaduto. È scandalizzarmi per il mio non scandalizzarmi dell'accaduto. Che avevo perfino messo in conto, da subito, scrivendo sotto al post incriminato proprio di avere cominciato il conto alla rovescia per la censura da parte di un algoritmo idiota o di un moderatore mal pagato intento a computare su Translate le mie frasi per renderle nella sua lingua, probabilmente il farsi. Mezza giornata, e altrettanto inspiegabilmente il mio post riappare. Una notifica Facebook mi avverte all'improvviso che la rimozione era stata "accidentale", un "errore" di cui la piattaforma "si scusa sinceramente" e che quindi no, non avevo violato nulla — aveva capito male Facebook.
La vera domanda, tuttavia, resta:
per quale motivo due miliardi — due miliardi — di persone nel globo accettano ogni singolo giorno che la lingua del dicibile si riduca alla sfera del computabile dai meccanismi, opachi e tragicamente insufficienti, di moderazione di Facebook? Come è possibile che due miliardi, due, di persone si esercitino ogni singolo giorno in questa palestra di accettazione della censura? Perché di questo si tratta: Facebook non è, come vorrebbe il suo fondatore, un luogo per dare una voce a chiunque, consentire a tutti di condividere qualunque cosa desiderino, né tantomeno col fine di creare senso di comunità e scopo personale, o addirittura cambiare il mondo un "mi piace" alla volta. Facebook è l'introiezione di un comando arbitrario e incontrollabile, l'interiorizzazione dell'idea che la censura possa colpire in qualunque momento, per qualunque contenuto, e non ci sia alcun sostanziale mezzo per mettervisi al riparo — a meno che Facebook stesso scelga, per motivi altrettanto imperscrutabili, di pentirsi.
Significa abituare che a decidere siano soggetti sconosciuti in luoghi sconosciuti secondo criteri sconosciuti, e che sia normale così. I vignettisti che vogliono mutuare gli schemi dei nazisti per usarli contro di loro. I fotografi che ritengono che per l'armonia di un loro scatto sia necessario mostrare un seno femminile interamente scoperto. I giornalisti che vogliono pubblicare materiale scomodo sulla propria bacheca. Sono tutti soggetti a rischio, ma soprattutto individui che stanno via via accettando che, per esistere nel luogo dei luoghi dell'opinione pubblica — Facebook —, si debba insieme accettare uno schizzo in meno, un capezzolo in meno, un documento in meno.
Il linguaggio diventa pura dichiarazione, divertimento; il simbolico, quello che invece possiede, lentamente, le menti, diventa sospetto. Lo slancio, il colpo di genio, l'irregolare, lo strano: tutto è sospetto, e rischia di finire nel cimitero dei post dichiarati deceduti dal Grande Inquisitore Digitale, dopo averli giustiziati sommariamente. Il tutto mentre invece
chi ha abbastanza consenso per scaricare ogni sorta di insulto e pregiudizio su chi non ce l'ha può farlo indisturbato. Il Trump islamofobo protetto dall'intervento personale di Zuckerberg per fermare i censori in allerta ne è l'esempio principale, ma è — di nuovo — perfino inutile ricordare quanti soggetti politici, non singole pagine di nostalgici, sfruttino quotidianamente Facebook per diffondere la visione del mondo che denunciavo in quelle poche righe, rimosse.
Il risultato non è solo, banalmente, che io che la denuncio finisco tra i cattivi, e loro che invece la propagandano restano tra i buoni. È che io stesso comincio a chiedermi se sia il caso di riprovarci, o di chinare il capo e accettare la censura. Invece di imporre standard di qualità del linguaggio più elevati per la politica, i personaggi pubblici, le "star" a vario titolo del nostro mondo di celebrità istantanea, l'opacità di Facebook impone ai "salvati" di dire ciò che desiderano — perché fa "engagement" — e a noi, i "sommersi", di pensare che convenga autoimporci la museruola, prima che qualcuno in qualche modo decida che non dobbiamo più avere accesso al canale che dovrebbe farci sentire proprio come loro: importanti, ascoltati, condivisi. Si dice che Facebook è un soggetto privato, non una democrazia.
È insieme una verità autoevidente e una sciocchezza colossale. Nessuna azienda prospera contro i propri clienti, che sul mercato — è noto — hanno sempre ragione. Il problema è che qui i clienti si chiedono se il prezzo non sia troppo basso, invece che troppo alto, e addirittura se abbiano o meno il diritto di andare in cassa e porre la domanda.
Il post rimosso:"Comunque oh, pensa 'sti cazzo di africani. Non solo non c'hanno più voglia di farsi colonizzare, schiavizzare e massacrare in ogni modo possibile e immaginabile. Ora pensano pure di scappare dalle guerre, dalla fame e dagli orrori. Non si rendono conto che stavano meglio quando erano schiavi delle potenze coloniali? Non capiscono che ha più dignità morire a casa loro, mentre lavorano per farci comprare l'iPhone nuovo, che è uscito pure l'ultimo modello e io ancora non ce l'ho? Pure con 'sto caldo si mettono sulle barche, poi, questi radical chic dei mari, questi migranti in cachemire a caccia di wifi, alberghi di lusso, bagni in fontane storiche, crimini impuniti, donne bianche da scopare e chiese da convertire in moschee. Potevano starsene a morire sulle loro cazzo di coste di merda, invece di portarsi dietro tutto 'sto caldo - oltre alle malattie e alla puzza, ovvio. Non ci sono più i negri di una volta. Ora sono astuti, complottano con le ong, si nascondono dappertutto, saltano le recinzioni e i muri, diffondono insieme morbi e ideologie malsane, sono nullatenenti e terroristi, si camuffano come mai prima d'ora. Ah, se solo si tornasse alle radici cristiane, all'Europa dell'uomo bianc... dei popoli, dei popoli! Se solo alzassimo un muro alto quaranta metri nel mezzo del Mediterraneo (pure il panorama dallo yacht, rovinano)! Se solo si potesse sparare alle mamme che partoriscono in mare! Se solo ci fosse un po' di sana civiltà europea, cazzo, allora sì che il mondo tornerebbe sulla retta via. Tutta colpa loro, te lo dico io. Tutta colpa loro". (Traduzione appena caricaturale del tenore dei post, dei servizi tv, degli articoli di giornale che si leggono nell'ultimo mese circa. Manca il riferimento a "Lui", ma sono certo sia solo perché sono fuori dall'Italia da un po').