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«Noi, migranti in Libia: ostaggi dei trafficanti, trattati peggio delle bestie»

I superstiti raccontano l’intreccio criminale tra chi lucra sul commercio di esseri umani e i poliziotti di Tripoli. Gli affari delle milizie armate sono coperti dagli ufficiali in mare. Un paese poverissimo e in balia della corruzione, in cui si vive di illegalità e contrabbando. E i morti non si contano

Lo scorso febbraio Yasin è dovuto scappare da Zawhia, la sua città natale nella parte occidentale della Libia, tristemente nota per essere una delle capitali del traffico di uomini. Stava fotografando i resti di settantaquattro corpi ritrovati dalla Mezzaluna Rossa Libica sul bagnasciuga quando è stato avvicinato da un uomo che l’ha minacciato di morte. L’obiettivo di Yasin era puntato sui volontari che riempivano le borse di cadaveri, e li contava, a decine. Come altre volte, avrebbe spedito le sue foto ai giornali europei per mostrare quello che accadeva sulle coste di casa sua.

«Mi guardavo intorno e cercavo il gommone con lo sguardo, non era lontano dai cadaveri, distrutto», dice Yasin, «ho notato che il motore non c’era. Probabilmente i trafficanti hanno capito che il gommone stava affondando e sono tornati indietro a prenderlo, per usarlo per le partenze successive. O forse è stata la guardia costiera a consegnarglielo, sotto ricatto o dietro pagamento è difficile dirlo. A Zawhia si vive così, tutti sanno chi controlla il traffico e tutti sanno chi li protegge».
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La voce di Yasin è rassegnata, non aveva nemmeno trent’anni durante la Rivoluzione, ha deciso di restare in Libia perché sperava nella rinascita del paese, sperava di contribuire alla trasformazione di una nazione che stava scoprendo la libertà. Invece oggi, sei anni dopo, vive in un paese nelle mani delle milizie.

Dopo la caduta del regime di Gheddafi nel 2011 le milizie armate libiche sono diventate sempre più potenti e hanno progressivamente riempito i vuoti di potere. Tutte le attività di contrabbando sono finite nelle mani di queste centinaia di bande armate che hanno di fatto “industrializzato” il traffico di uomini rendendolo più efficiente e più feroce.

Le brigate più grandi hanno preso il controllo degli impianti petroliferi, degli aeroporti e dei porti, le altre sono rimaste frammentate in tutto il territorio, spesso in lotta tra loro per antiche dinamiche tribali.
Le frammentazioni delle brigate armate e le loro lotte intestine per il controllo delle zone strategiche, hanno minato fortemente lo sviluppo della Libia dopo il 2011, provocando conseguenze a lungo termine per la società e l’economia del paese.
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La milizia più potente della zona di Zawhia è la brigata al Nasr di Mohamed Kashlaf (che controlla la sicurezza della raffineria di zona) i cui traffici sono coperti dal capo della guardia costiera dell’area, Abdurrahman Milad (più conosciuto come Al Bija) che scorta i gommoni in partenza dalla zona dietro il pagamento di un pedaggio. Gli unici gommoni ad essere riportati indietro sono quelli che non pagano.

«Milad dovrebbe garantire il lavoro della guardia costiera» dice ancora Yasin «È pagato direttamente dal governo con il compito di controllare quello che succede nel porto. Dovrebbe collaborare con gli ufficiali della marina, ma in realtà è tra i capi del traffico di esseri umani, non solo gestisce quello che succede nel porto ma controlla direttamente anche diversi centri di detenzione illegali. La guardia costiera il Libia è anche questo, un incrocio nebbioso di malaffare. Osservare le decisioni italiane da qui, l’addestramento, i soldi alla guardia costiera, mi fa pensare che ci sia una volontaria cecità o la necessità di proteggere altri interessi».

Zawhia si trova a circa cinquanta chilometri da Mellitah, zona di interesse strategico per l’Italia, per la presenza del compound Mellitah Oil Gas, branch libico dell’Eni, da cui parte il gasdotto Greenstream, che arriva in Sicilia, a Gela. David lavora tra Sabratha e Mellitah da trent’anni, fa l’ingegnere: «Dalle coste di Sabratha parte di tutto, uomini e carburante di contrabbando. Basta aspettare il calare del sole per vedere decine di uomini riempire le navi di carburante. Parte dalla Libia e arriva in Europa sotto gli occhi di chi dovrebbe controllare le coste. Le milizie che controllano la zona tra Zawya e Sabratha, si spartiscono le zone di interesse con la complicità delle forze di polizia e della marina locale. Tutti lo sanno – continua David - la milizia Hneesh e il clan Dabbashi gestiscono il traffico di carburante e di uomini con un accordo di che si rinnova a colpi di arma da fuoco. Ho visto decine di navi, molte cisterne partire dalle coste di Sabratha sotto gli occhi della guardia costiera. Il contrabbando di carburante e uomini sfama tutti, soprattutto ora che in Libia il denaro contante scarseggia e tutta l’economia è sostenuta dall’illegalità, dalla corruzione. Chi dovrebbe controllare fa in modo di non vedere e chi vede viene minacciato di morte. E alla fine dimentica e non denuncia».
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L’ingegnere racconta che nella zona tra Sabratha e Zawya ogni attività è gestita dal “cartello del carburante”. Cartello che decide arbitrariamente di organizzare check point armati per pianificare la chiusura della strade e garantire il passaggio indisturbato delle cisterne di carburante verso il porto.

I lavoratori della zona di Mellitah sostengono inoltre che il clan Dabbashi abbia accordi economici per garantire la sicurezza dei colossi dell’energia, accordi sanciti da una lettera datata 2015 nelle mani dei servizi di sicurezza libici che recita: «il battaglione del martire Anas Dabbashi ha cominciato a lavorare per la protezione del compund di Mellitah e il collegamento stradale dal complesso alla porta d’ingresso occidentale di Sabratha».
Il clan Dabbashi controlla inoltre il traffico di esseri umani e di armi nella zona e l’anno scorso il sindaco di Sabratha ha accusato pubblicamente i membri del clan di aver favorito l’ingresso e nascosto la presenza di membri dell’Isis nella zona e di aver ordinato il sequestro dei quattro lavoratori italiani.

«So per certo – conferma un abitante di Sabratha – che la milizia Amo, di Sabratha, ha posto alcune condizioni affinché il carburante possa arrivare nella vicina città di Zuwara, una della condizioni era che 100 uomini della milizia fossero impiegati come sorveglianti negli impianti ed è esattamente quello che è avvenuto». Il livello di corruzione è diventato ormai endemico in intere aree del paese che sono fuori controllo, gli ufficiali del ministero dell’interno neppure si avvicinano alle zone gestite dalle milizie. Hanno paura.

Ad aggravare la situazione, la corruzione e la carenza di denaro stanno spingendo molti giovani verso il guadagno facile che arriva dal contrabbando, sia di carburante che di esseri umani. «Le milizie sono in accordo con parte della guardia costiera - spiega ancora Yasin - e vendono i migranti recuperati in mare ai trafficanti con cui sono in affari oppure, una volta recuperati, chiedono loro un riscatto per liberarli che di solito ammonta a non meno di 1000 dollari. Ci sono persone nelle milizie che hanno il compito di raggiungere i gommoni in mare, rompere i motori e lasciarli in mare aperto in attesa del recupero. È un effetto domino. Poi vengono recuperati, sfruttati, ricattati e venduti di nuovo. Il dinaro libico è carta straccia e i giovani - dice ancora Yasin - hanno bisogno di soldi e vedono nei traffici illegali un business sicuro».

A Tripoli le sedi delle banche sono quotidianamente assaltate da centinaia di persone. Chiedono i propri soldi, i risparmi di una vita. Ma i loro soldi non ci sono più. In Libia il contante è appannaggio dei contrabbandieri e dei trafficanti di uomini.

Fahmi ha sessant’anni, sette figli, fino a pochi anni fa vendeva automobili, era benestante. In banca qualche migliaio di dinari per la vecchiaia. Fahmi va in banca ogni mattina. Ma ogni mattina da mesi il funzionario allo sportello ripete la stessa frase: «No cash».

Fahmi è stanco: «nessun governo europeo vuole davvero aiutarci, stanno in finestra a guardare la gente morire in mare, hanno fatto propaganda con le operazioni militari nel Mediterraneo, Sophia, Triton, Frontex, intanto lungo le nostre coste si consumano quotidianamente reati gravissimi e nessuno cerca una soluzione. Nessuno la cerca perché tutti lucrano sulle nostre ricchezze. Io posso anche morire senza i miei risparmi, ma penso al futuro dei miei figli, i giovani sono attratti da questi crimini perché pensano che siano la soluzione ai loro problemi. I giovani hanno bisogno di soldi e i contrabbandieri forniscono loro questi soldi. Nessuno si preoccupa se arrivino dai migranti e se i migranti arriveranno in Europa vivi o morti annegati. Conta solo la spartizione del denaro».

I funzionari nel ministero dell’interno libico confermano tutte le dinamiche descritte dagli abitanti di Sabratha e Zawhia: le guardie costiere corrotte consegnano i migranti alle milizie e le milizie li tengono in centri di detenzione illegali, lì dopo averli derubati di ogni avere, sequestrano loro i telefono e chiamano le famiglie nei paesi di origine chiedendo riscatti per liberarli. Se non pagano, vengono picchiati. O uccisi. «È un effetto domino di disgrazie, ci hanno lasciati soli e il paese è nel caos, non c’è sicurezza e meno siamo al sicuro e più continueranno a lasciarci soli», dice un funzionario del ministero, «è inutile che ambasciatori e ministri facciano propaganda con un governo che non esiste. Se vogliono la sicurezza in Libia devono trattare con le milizie».

Milizie che fanno il doppio gioco. Con una mano chiedono al Ministero dell’Interno i soldi per mantenere i migranti nei centri di detenzione non ufficiali, comprare cibo, acqua, vestiti. Con l’altra mano gestiscono direttamente il traffico di uomini, usano le prigioni per fare stoccaggio merci. E le merci sono le persone. Come Anja.

Anja ha trentotto anni, e il viso segnato dal dolore. È siriana. Con suo marito e i suoi tre figli un anno e mezzo fa ha provato ad imbarcarsi dalla zona di Sabratha per raggiungere l’Europa. «Quando siamo arrivati in Libia io ho sperato con tutte le mie forze che fosse l’ultima tappa della nostra fuga, prima dell’Italia».

Anja racconta che i trafficanti li hanno tenuti per quindici giorni in una casa di cemento vicino al mare. Chiusi a chiave senza potere uscire. «Dicevano che dovevamo aspettare il tempo buono, ma il tempo era buono e la nostra stanza continuava a riempirsi di persone. Aspettavano di raggruppare il numero maggiore di persone, per guadagnare di più». In quei quindici lunghissimi giorni il cibo arrivava a stento, così come l’acqua. I trafficanti passavano loro un po’ di pane raffermo dalle grate delle poche finestre presenti. Una notte i trafficanti li hanno portati fuori sulla spiaggia, Anjia ha visto il mare e non voleva più partire, ha cominciato a strillare, ma uno dei trafficanti l’ha trascinata sul barcone con i suoi figli.

Poco dopo la partenza, in piena notte, il barcone ha cominciato a imbarcare acqua: «Quelli che erano sottocoperta hanno cominciato a gridare, a urlare allo scafista che stavamo imbarcando acqua, che rischiavamo di affondare e morire tutti. Ma lo scafista faceva finta di non sentire. Ha provato a tirare dritto».

Lo scafista con il telefono satellitare ha chiamato i suoi complici a riva che lo hanno raggiunto e portato indietro lasciando centinaia di persone in mare a cercare di sopravvivere tra le onde. Anjia si è gettata in acqua tenendo stretto il figlio più piccolo, un’intera notte in acqua a lottare tra la vita e la morte. «A momenti vedevo delle sfere, mi attaccavo, poi capivo che erano teste, che erano cadaveri». Anjia quella notte ha perso il suo figlio maggiore, di undici anni, morto annegato. Oggi è ancora in Libia, nessuna organizzazione umanitaria riesce ad aiutare la sua famiglia, lei non vuole più vedere il mare. Quando ripensa a quella notte singhiozza. «Non sono umani» dice «I trafficanti non sono esseri umani. Sono peggio delle bestie».

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