Non si possono costringere le Ong ad avere le armi a bordo
Il soccorritore opera negli interstizi della legge, ispirandosi ai valori più alti. Regolare le organizzazioni non governative significa far svanire l'umanitarismo che le ispira
Come spesso avviene in Italia, si rischia di perdere il filo della matassa. Mi riferisco alle polemiche suscitate dalla scelta di Medici senza Frontiere e di altre Ong di non firmare il codice Minniti sul salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. In particolare per la norma che impone di accogliere agenti armati a bordo delle loro imbarcazioni. Contro tale scelta, difesa da Roberto Saviano senza se e senza ma, sono insorti prima i “sovranisti” capeggiati da Salvini, e poi, in maniera più argomentata, intellettuali come Ernesto Galli della Loggia. Che, sulle pagine del Corriere, ha negato il ruolo di terziarità delle Ong in una situazione che non è di guerra.
Dico subito che sto con Medici senza Frontiere. Non perché sottovaluti il ruolo decisivo della legge. Ma perché l’opzione di Msf si pone su un piano diverso da quello strettamente giuridico. Pur senza entrare in diretta collisione con esso. Ciò non determina affatto uno stato di eccezione. Lo stato di eccezione è quello che sospende momentaneamente la legge vigente a favore di un diverso ordinamento. Non è certamente il caso in questione. In cui soggetti non istituzionali operano all’interno della legge per interessi superiori come quelli della salvezza di vite umane. Le Ong hanno sempre avuto con gli organismi politici con i quali vengono di volta in volta in contatto accordi, patti, convenzioni, cui si attengono in maniera quasi sempre scrupolosa – appunto per non essere dichiarate fuorilegge. Ma con alcune riserve necessarie al proprio ruolo terzo, la prima delle quali è appunto l’assenza di armi a bordo delle loro imbarcazioni.
Questo principio è evidentemente irrinunciabile non per motivi propagandistici. Ma per l’inconciliabilità materiale e simbolica delle armi con la loro missione. Come potrebbero operare neutralmente in teatri di guerra con le armi in pugno o anche accanto? Diverrebbero necessariamente parte in causa, a favore degli uni o degli altri. Ma, si dice, il Mediterraneo non è teatro di guerra. Questo è tutt’altro che chiaro, se perfino la Libia, che costituisce il nostro interlocutore più prossimo, è ancora contesa da fazioni armate in lotta fra loro. Da tempo, del resto, la distinzione tra pace e guerra si è fatta molto problematica. Giustamente il presidente italiano di Msf Loris Filippi ha osservato che uno dei criteri per definire se un teatro è di pace o di guerra è il numero di morti sul campo. Che in questo caso non è inferiore a quello di una guerra civile.
Ma questo è solo un lato del problema. Che sta nella differenza tra due forme di legge. Quella degli Stati e quella di chi opera in mare o in terra a puro scopo umanitario. Sarebbe folle mettere in discussione l’utilità della prima legge. Nessuno Stato reggerebbe senza un sistema giuridico destinato a distinguere i comportamenti legittimi da quelli illegittimi e a sanzionare questi ultimi. Anche con la forza. Non per nulla si usa comunemente l’espressione “in forza di legge”. Ma i giuristi veramente tali sanno che questa legge, difesa e imposta anche con la forza, non coincide con qualcosa di più alto cui gli uomini hanno sempre dato il nome di Giustizia.
Naturalmente le due forme di legge – quella che risponde ai codici e quella che risponde a ciò che è giusto – non si escludono a vicenda. Anzi la prima si sforza sempre di accostarsi alla seconda. Ma senza mai potere coincidere con essa. E infatti alla legge statale si obbedisce non perché è giusta, ma perché è legge. Ciò è assolutamente necessario, per garantire i rapporti fra gli uomini e fra gli Stati. Ma proprio tale necessità, che regola generalmente le nostre azioni, lascia una striscia sottile, relativa a questioni ultime, come quella di salvare vite umane, su cui la legge degli Stati non ha presa. E su cui si agisce in nome della Giustizia. Senza contrastare il diritto sul suo piano, ma lavorando su un piano diverso – quello del giudizio sul bene e sul male.
Msf opera su quella striscia sottile. Nella zona di rischio nella quale, in momenti particolarissimi, alcuni uomini si assumono la responsabilità di muoversi, non contro, ma ai margini e negli interstizi dei protocolli legali. A costo di pagarne il prezzo. Senza questi uomini, il mondo non sarebbe migliore. Non risolverebbe comunque problemi insolubili sul tempo breve come quello delle migrazioni. Avrebbe, invece, qualcosa di meno. Perderebbe quei grammi di umanità che fanno da contrappeso, sulla bilancia della giustizia, ai chili di interessi, di corruzione, di indifferenza che rendono opaca e monca la nostra esperienza.
Questo è il vero punto, al di là delle questioni giuridiche, economiche, politiche si cui si è detto tanto senza mai approdare a nulla. Ci sono momenti in cui tutto questo va sospeso, lasciato impregiudicato. ‘Impregiudicato’ significa letteralmente ‘non giudicato preventivamente’. Perché non di questo si occupa la Giustizia – di protocolli, di accordi, di convenienze. Tutte cose necessarie, inevitabili, utili sul piano delle dinamiche politiche. Ma esterne all’orizzonte della Giustizia.