Il governo di Roma punta sull'etnia che controlla il deserto libico sudoccidentale per arginare i flussi. Ma c’è un filo rosso che porta fino all'Egitto e a Regeni

Cinquemila chilometri di sabbia che segnano il confine con Algeria, Niger e Ciad. Un’area di deserto e roccia grande quanto due volte l’Italia, in cui vivono tribù rivali in lotta per il controllo delle risorse economiche. La popolazione fatica, mancano medicine, scuole e lavoro e in tanti si danno al contrabbando: petrolio, armi ed esseri umani permettono profitti per migliaia di dollari al mese. Questo è il Fezzan, la porta d’accesso dell’Africa sub-sahariana verso l’Europa. Da qui, mentre nel Mediterraneo infuria la polemica sulle Ong, con tanto di uso politico dell’odio e della paura dei migranti, l’Alta Commissione della tribù dei Tebu, ha comunicato «per la durata di un mese il fermo impegno e la seria intenzione di annientare i criminali e di contrastare l’immigrazione clandestina e il terrorismo nelle zone delle frontiere».

Il “popolo della roccia” che vive lungo il confine meridionale della Libia l’ha definita «una coraggiosa decisione» mettendo in chiaro il loro ruolo: «la chiave della soluzione dei problemi della migrazione si trova nelle nostre mani e da nessun’altra parte».

È un segnale rispetto al tortuoso percorso intrapreso dal ministro dell’Interno Marco Minniti nel territorio del Sud. Non a caso i Tebu hanno citato la visita del marzo scorso a Roma, quando in un’atmosfera top secret nella sala del consiglio del Viminale le tribù trovarono un accordo di pace.  L’incontro segnò la riconciliazione tra i Tebu e gli Awlad Suleyman. Insieme ai Tuareg hanno garantito di unire le forze contro trafficanti e terroristi. L’hanno ribadito anche a maggio, tanto che Minniti ha parlato di «rapporto di reciproca fiducia» con i guardiani del deserto del Sahara.

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Il Fezzan è il terzo tassello della strategia italiana. Segue l’accordo con il premier del governo di accordo nazionale Fayez al-Sarraj che ha determinato la partenza della missione delle nostre navi nelle acque libiche e il ripristino diplomatico dei rapporti con l’Egitto. L'ambasciatore Giampaolo Cantini ritornerà al Cairo nonostante non si sia ancora arrivati alla verità sul sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni con l'obiettivo: migliorare i rapporti con Abdel Fattah al-Sisi, il presidente egiziano in grado di influenzare il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica.

Nella Libia terreno di conflitto di un’Europa disunita nell’accoglienza e negli interessi petroliferi, il Sud è stato spesso trascurato. L’Italia si muove con un progetto a lungo termine che si prefigge di far ripartire un’economia legale laddove il contrabbando è diventato un lavoro e il traffico di esseri umani, secondo un recente report di International Crisis Group, genera guadagni tra un miliardo e un miliardo e mezzo di dollari. Soldi non tracciabili che finiscono nelle mani dei criminali. I trafficanti possono contare su manovalanza e complicità e, come se non bastasse, questa terra è rifugio e nascondiglio dei fuggitivi del sedicente Califfato.

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I Tebu hanno chiesto di «mitigare la sofferenza, offrendo un’alternativa di sviluppo». Parlano di un futuro di dignità e di pace. Nel concreto chiedono come contropartita un sostegno economico allo sviluppo del territorio. Intanto a fine agosto dovrebbe esserci un nuovo incontro in Italia con 14 sindaci per portare avanti un patto con le municipalità. Un’ulteriore messa a punto della collaborazione, ma molte sono le incognite. Si riuscirà ad avviare un progetto in grado di offrire un’alternativa o l’accordo tra l’Italia e le tribù finirà solo per sigillare il confine con le armi rimandando indietro i migranti verso nuove guerre e carestie? 

È fondamentale l’interazione con Ciad e Niger, ricostruire legami di fiducia tra le tribù e le istituzioni centrali, imporre il rispetto dei diritti umani e mettere fine ai fenomeni di corruzione e complicità con i trafficanti. Agire per interrompere la gestione delle vite umane con le logiche di un business criminale.