Dopo gli accordi raggiunti da Gentiloni e Minniti con i sindaci libici, l'ondata di migranti sembra essersi arrestata. Ma l'economia del sud della Libia si fonda sui traffici di esseri umani. Sei anni dopo la caduta di Gheddafi, si fa urgente la necessità di ricostruire il Paese il momento di ricostruire il paese. E anche l'Ue sembra ormai pronta ad intervenire
Sarebbe ridicolo scomodare la temeraria operazione di Thomas Edward Lawrence, l’agente segreto britannico più conosciuto come Lawrence d’Arabia. Ma il piano per la Libia che il premier Paolo Gentiloni ha presentato a Parigi lunedì 28 agosto è altrettanto ardito:
la stabilizzazione del deserto al confine con il Niger e il Ciad si basa su un fragile accordo tra il ministro dell’Interno, Marco Minniti, e ben sessanta capi tribù del Sahara, sotto la continua supervisione del premier Fayez al-Serraj, al vertice dell’unico governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite (e dall’Italia). Sarebbe però ugualmente ridicolo pensare che tutto questo possa reggere senza il riconoscimento del generale Khalifa Haftar, il signore della guerra sostenuto dalla Francia e dall’Egitto, che da Bengasi ha liberato gran parte dell’Est del Paese dalle infiltrazioni di Al Qaeda e poi dallo Stato islamico. Senza l’appoggio dell’ex ufficiale del regime di Gheddafi, tornato in patria a combattere dopo anni di esilio negli Stati Uniti, in Libia non ci sarà nessuna pace. E il primo ad esserne consapevole è il presidente francese Emmanuel Macron, dato che l’Eliseo è il principale azionista del suo alfiere Haftar.
[[ge:rep-locali:espresso:285293113]]L’immigrazione è il pretesto di una partita su una scacchiera molto più grande. Ritenere che a Parigi i massimi rappresentanti di Unione Europea, Francia, Italia, Germania, Spagna, Libia, Niger e Ciad si siano occupati principalmente dello sbarco in massa di profughi in Europa e di come garantire il rispetto dei diritti umani al di là del Mediterraneo è riduttivo. La promessa di bloccare i traffici di persone a Sud del Sahara da parte dei sessanta capi clan e dei sindaci delle città meridionali è il primo passo, la prova di buona volontà, per procedere verso la concessione di finanziamenti europei e la ricostruzione in Libia. Una corsa già cominciata con l’assegnazione al consorzio italiano “Aeneas” dell’appalto per il nuovo aeroporto di Tripoli, che prenderà il posto delle infrastrutture distrutte dalla guerra.
Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, in un’intervista a “Repubblica”, ha anticipato l’ipotesi di un piano di aiuti alla Libia per sei miliardi, simile a quello concesso alla Turchia su pressione di Berlino per fermare il flusso di profughi siriani verso la Germania. Di fronte a un montepremi pubblico così ricco a disposizione delle aziende europee,
l’apertura di centri di detenzione per migranti lungo la rotta del Sahara e le prevedibili condizioni degradanti dei reclusi non scandalizzeranno più di tanto i governi. Al massimo saranno un’ulteriore opportunità economica per le ditte che li costruiranno.
Una volta scelta la strada più breve verso l’obiettivo, Gentiloni e Minniti, che in questo governo è il vero ministro degli Esteri, non avevano alternative.
La politica italiana dei piccoli passi per ora sembra resistere alle minacce esterne. Prima grazie alla ricostruzione istituzionale e la formazione del Governo di accordo nazionale di al-Serraj, sponsorizzata dall’Onu e un tempo combattuta da Haftar. Poi con la stabilizzazione del Sud della Libia attraverso l’accordo di pace siglato a Roma il 31 marzo tra il generale Senoussi Oumar Massaoud, presidente del Consiglio dei notabili in rappresentanza del clan degli awlad suleiman, e l’ex nemico, lo sceicco Zilawi Minah, sultano della tribù dei tebù della Libia. Un traguardo raggiunto grazie a mesi di mediazione e incontri guidati dall’associazione internazionale con sede a Roma “Arapacis Initiative”, che sotto il simbolo dell’altare della pace dell’imperatore Augusto ha portato nel Sud libico i principali ingredienti per archiviare l’odio esploso con la rivoluzione del 2011: riconciliazione e dialogo tra le fazioni, prima di tutto. Lo stesso percorso su cui Nelson Mandela aveva messo fine alla guerra civile strisciante in Sud Africa.
Dalla scorsa settimana, il premier Serraj e il ministro dell’Interno italiano hanno dalla loro parte il supporto della Corte suprema libica. I giudici hanno infatti annullato la sentenza della Corte d’appello di Tripoli che bocciava il memorandum d’intesa firmato a febbraio tra i governi italiano e libico. La decisione bloccava ogni ulteriore negoziazione tra le parti che mirava a fermare le partenze dei barconi verso l’Italia. Il ricorso era stato presentato dall’ex ministro della Giustizia, Salah Al-Marghani e da altri giuristi. Serraj ha continuato sulla sua strada e in luglio ha firmato il nuovo accordo con l’Italia che permette alle navi militari italiane di entrare nelle acque territoriali libiche e il respingimento di profughi e migranti, senza nessuna preventiva identificazione.
La sentenza definitiva della Corte suprema ha evitato un incidente politico e ulteriori argomenti per gli oppositori libici che non hanno dimenticato il passato coloniale. Poche settimane fa, lo Stato maggiore di Haftar aveva addirittura minacciato di bombardare le navi militari italiane.
Nella terra dei miraggi alle porte del deserto, così come spesso accade anche in Italia, non sempre la via più breve tra due punti è una linea retta. Lo dimostra il percorso seguito nei giorni scorsi dai primi diecimila kit di primo soccorso per i migranti respinti. Fornitura destinata metà alla Guardia costiera libica e metà alla città di Zuwara. Invece di farli arrivare comodamente con un aereo, come rivela il sito di informazioni “Libya Herald”, gli scatoloni sono stati trasbordati da una nave della Marina italiana a una motovedetta della Guardia costiera di Tripoli. Lo scambio è avvenuto rigorosamente (appena) al di fuori delle acque territoriali libiche, per sottolineare il rispetto della sovranità nazionale. Una volta arrivati in porto, i kit sono stati restituiti all’ambasciata italiana perché fossero poi ridonati ai libici in una cerimonia ufficiale. Così ha voluto la diplomazia di Roma. Con grande stupore delle autorità locali.
L’assistenza obbligatoria alle persone bloccate lungo la rotta verso il mare non deve abbandonare i residenti impoveriti da anni di guerra. I sindaci libici che hanno incontrato il ministro Minniti al Viminale gli hanno ricordato proprio questo.
Rinunciare al trasporto di migranti dal Niger o dal Ciad significa perdere l’unico reddito che, dalla caduta del regime del colonnello Gheddafi,
manteneva le regioni del Sud. L’alternativa per vivere sarebbero i traffici di armi e droga. Oppure investimenti e progetti duraturi dall’Europa: «La Libia», hanno scritto i sindaci nel documento finale, «guarda con aspettativa al tempestivo sostegno dell’Italia e dell’Unione Europea ai progetti già proposti e che saranno proposti in futuro, finalizzati al miglioramento delle condizioni di chi vive nelle aree colpite dai traffici illegali».
L’intenzione c’è. Ora servono le idee. E, come ai tempi del colonnello Gheddafi, tanti soldi. Prima che un imprevisto qualunque faccia riesplodere la guerra e il caos riapra la corsa ai barconi. Basta poco per infiammare i rancori. L’ultima volta, nel novembre 2016, la battaglia si è riaccesa per colpa di una scimmia. L’inconsapevole primate di un commerciante della tribù dei gaddafa, la stessa che sosteneva il dittatore ucciso nel 2011, ha tolto il velo dai capelli di una studentessa degli awlad suleiman. I suleiman si sono vendicati uccidendo tre esponenti dei gaddafa. E dalla città di Sebha i combattimenti si sono estesi a tutto il Sud, con l’impiego di carri armati e artiglieria. Oggi non sarà facile essere equi. I gaddafa sono fuori dagli accordi. I sindaci di Sebha e Gatrun, due città sulla rotta del Sahara, non sono riusciti ad arrivare al vertice di fine agosto a Roma. E non tutti i tebu, da buoni carovanieri del deserto, sono soddisfatti. Mentre fuori Tripoli corre la voce, non confermata, che gli 007 italiani stiano pagando milioni ai trafficanti per tenere fermi i barconi sulle spiagge. Almeno per qualche settimana. Intorno all’ufficio del ministro Minniti sono in molti a incrociare le dita.