La Rete doveva essere libera, decetrata, paritaria. Invece è diventata il regno dei nuovi oligarchi. Ma l'utopia non è persa per sempre

L' utopia della rete degli esordi - libera, decentralizzata, paritaria per natura - è morta. Ma non significa che è giunto il momento di arrendersi. È invece tempo di rovesciare il tavolo, e restituire Internet a utenti e cittadini. Contro il dominio incontrastato dei monopolisti dei dati, le disuguaglianze e discriminazioni arbitrarie dei loro algoritmi; contro la bulimia del controllo statale su ogni nostro messaggio, mail e navigazione; contro individui ridotti a gadget o serie di numeri in un futuro disegnato per loro, contro di loro, da guru e sovrani del “digitale”, serve un nuovo slancio utopistico. L’obiettivo? Un web “for the many, not the few”. Per tutti, non per pochi.

Lo slogan è quello con cui Jeremy Corbyn ha rivitalizzato il partito laburista britannico, ma non serve alcun endorsement politico per impegnarsi nella missione, urgente, di ridemocratizzare la rete, e renderla a misura d’uomo - di ogni uomo. Basta ricordare come lo stesso padre del web, Tim Berners-Lee, sostenga da tempo che senza una serie di interventi mirati a promuovere uguaglianza, accesso, libertà, non ci sarà via d’uscita da logiche “winner takes all”, in cui chi vince piglia tutto. Nel dicembre 2014 un rapporto della sua Www Foundation vedeva il mondo a un “bivio” tra una rete per pochi e per molti; oggi lo abbiamo superato, e nella direzione errata.

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Come invertire la marcia? Con ambizione, radicalità e rigore. Il punto centrale è smontare l’idea per cui “noi siamo il prodotto”, la premessa di ogni interazione online per cui è fisiologico che la moneta di scambio per fruire di servizi (solo apparentemente) gratuiti siano le nostre vite, in ogni più minuto dettaglio. I dati devono tornare possesso degli utenti. E ciascuno di noi deve poter decidere, e poterlo fare davvero, a chi affidarli, con quali limiti e per quali scopi. È una rivolta della trasparenza contro l’opacità dei sistemi automatici che ci incastrano in categorie e classifiche che ignoriamo, ma finiscono per condizionare la possibilità di trovare o perdere lavoro, ottenere o meno un prestito o una casa, perfino essere definiti criminali o innocenti. Se poi la personalizzazione dei messaggi pubblicitari sui social network avviene per scopi politici, è ora di rendere noto a ogni utente chi li paga, come li diffonde ed esattamente a chi. Non si tratta solo di sventare la propaganda digitale del Cremlino: è cruciale per comprendere la reale estensione di qualunque progetto propagandistico online.

Per spezzare i monopoli delle reti sociali potrebbe inoltre essere necessario farci proprietari del nostro “social graph”, della rete cioè di contatti stabiliti sui social media: perché non ridefinire il concetto di proprietà così da includerlo, si chiedono gli economisti Luigi Zingales e Guy Rolnik sul New York Times, e consentirci di portare con noi quel network da Facebook, Google e Twitter a qualunque nuova piattaforma ci aggradi? A loro certo non piacerebbe, ma forse l’innovazione - dopo un decennio di stasi - ne guadagnerebbe. Se non dovesse bastare, potrebbe essere necessario spezzarne i monopoli, e riscrivere, argomenta l’Economist, la normativa antitrust per riuscirci.
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Di pari passo a maggiore competizione, serve uno Stato davvero “innovatore”, il garante ultimo della democraticità del progresso. Realizzare usi pubblici dei Big Data, senza che le istituzioni svendano le nostre storie mediche a Ibm o DeepMind, diverrebbe più semplice. Così come più semplice sarebbe immaginare progetti che rinnovino l’istruzione, i trasporti e il welfare prima e senza che siano colossi privati, e dunque non deputati al bene pubblico, a tracciarne i binari, costringendo la collettività a percorrerli. Ancora, perché non regolamentare, come nel tentativo pur maldestro del governo di Theresa May, un divieto reale di de-anonimizzazione dei dati raccolti sugli utenti - un’operazione oggi insieme banale ed estremamente invasiva della loro privacy?

Nell’era dell’automazione, è la scelta il bene scarso. Ma la scelta comporta cultura e informazione, e la rivoluzione partirebbe proprio dal libero accesso a entrambe. Se la conoscenza è oggi la principale fonte di potere e ricchezza, una reale uguaglianza di possibilità a ogni utente si realizza solamente aprendo e liberandola al pubblico. Gli strumenti esistono, ma sono illegali. Eppure la situazione è insostenibile, e non sono “pirati” informatici a dirlo. Dopo la realizzazione di uno studio che mostra come già oggi l’85% dei saggi accademici sia consultabile tramite la piattaforma Sci-Hub, lo scienziato Daniel Himmelstein ha dichiarato a Science di ritenere che sia «l’inizio della fine per il modello degli abbonamenti nella conoscenza universitaria». Ne saranno necessari di «più aperti»,dice: è inevitabile. È su questa battaglia, già del prematuramente scomparso Aaron Swartz, che devono concentrarsi gli sforzi delle istituzioni culturali, non su ingegnose modalità per limitare o vietare l’accesso all’informazione, addirittura inserendo il Digital Rights Management all’interno del cuore dell’architettura di rete.

Molti parlano di “cultura digitale” in senso più ampio; pochi cercano di dare contenuto critico a quell’espressione. E no, non è solo “uso responsabile” della rete. Significa, per esempio, promuovere l’insegnamento della programmazione nella scuola dell’obbligo, senza cedere ai progetti “personalizzati” del produttore di app di turno. È capire che ci sono milioni di oggetti connessi insicuri, e che vanno messi in sicurezza prima che diventino miliardi - negli Stati Uniti il Senato sta valutando una proposta con dei requisiti minimi, per la prima volta, ed è una svolta necessaria a livello globale. È provare a comporre strategie di “debiasing” ai pregiudizi algoritmici, e capire come renderle intelligibili alla popolazione. Stendere correttivi alla “sharing economy”, senza crederla una panacea di ogni male, solo perché ci culla in un’illusione di comodità e insieme comunità. E se, come stiamo imparando, trasforma ulteriormente i lavoratori in freelance privi di ogni tutela, si può introdurre un “equo compenso minimo” apposito per il settore, argomentano Frank Field e Andrew Folsey, e soprattutto invertire l’onere della prova: siano le piattaforme a dimostrare che si tratta di lavoro autonomo, e non il dipendente.

L’ambizione poi deve portare a porre domande inedite, fondative. Un esempio: possibile che, nell’era del riscaldamento globale, non esista una stima affidabile dell’impronta ambientale del capitalismo delle piattaforme? Sì, scrive Jamie Woodcock su Ecologist, è proprio così. Con il risultato che i colossi web parlano da ambientalisti, ma non sappiamo se mettere le auto in condivisione in stile Uber aumenti o riduca l’inquinamento stradale, né quanto inquinino i data center, pur se “eco-friendly”, o se sia tempo di dettare precise condizioni al consumo di bit.

Sono domande empiriche, da affrontare dati alla mano. E sono proprio i dati, prima ancora che le politiche, a mancare. Perché non istituire una commissione internazionale di studio in materia? Da ultimo, va salvata l’architettura che rende possibile ogni democrazia digitale: il principio di uguaglianza dei bit, la neutralità della rete; la crittografia, le cui leggi matematiche sono oggi declassate a opinioni da sottomettere alle norme formulate da governi in delirio di sicurezza; e i diritti fondamentali, che valgono in rete come fuori, e andrebbero difesi, sempre, specie ora che il vento dell’egemonia ingrossa i nazionalismi e le dittature. Utopia? Certo, ma necessaria. E, se possibile, da scrivere insieme - proprio su Internet.