E' lo showrunner della produzione americana che racconta la vita del leggendario trafficante di droga colombiano Pablo Escobar. E che spiega perché amiamo il racconto della realtà. «I risultati migliori li ho ottenuti quando ho avuto la possibilità di spaventare il pubblico »

Prima di diventare showrunner di “Narcos”, cioè il supervisore della serie, la maggior parte della mia carriera nel mondo dello showbusiness ha avuto un percorso che definirei casuale. Fino ad allora non ero ancora riuscito a definire con precisione i miei interessi. Dopo aver lavorato in televisione al “Saturday Night Live”, infatti, sono passato al cinema. Il fatto è che adoro raccontare storie, non importa che si tratti di commedia, horror, fantascienza o crime: l’importante è che la storia sia avvincente.

Se proprio dovessi trovare un filo conduttore nel mio lavoro fino a “Narcos”, direi che i risultati migliori li ho ottenuti quando avevo la possibilità di spaventare il pubblico. In questo senso, in un ipotetico confronto tra gli zombie e il cartello di Medellín, è ovvio che Escobar sia molto più spaventoso, visto che si tratta di una storia reale. Mi spiego meglio: la cosa più difficile, quando si affronta una vicenda come quella di Pablo Escobar, è raccontarla nello spazio di un solo film. Nelle due ore della proiezione cinematografica, infatti, sei giocoforza costretto a sintetizzare e quindi devi focalizzare il racconto sulla violenza, gli omicidi, l’orrore e la psicopatia di Escobar. Se invece hai a disposizione venti ore di racconto, allora puoi mostrare Escobar in modo più completo, in tutta la sua complessità. 
@Juan Pablo Gutierrez/Netflix

Trovo diseducativa qualunque semplificazione di vicende storiche. Nei giorni in cui stavo presentando il progetto della serie “Narcos” a Netflix, era stato appena ucciso Osama Bin Laden e in America c’erano grandi festeggiamenti per averlo eliminato. Ricordo che in quelle riunioni ho fatto un paragone tra l’uccisione di Escobar e quella di Bin Laden. Riguardo a Escobar, devo ammettere di essere contento che sia morto, ma trovo molto strano celebrare la morte di chiunque, soprattutto se questa morte non ha cambiato nulla nella situazione del narcotraffico. Osama ed Escobar hanno avuto un destino simile: abbiamo investito energie incredibili per eliminarli, ma nel lasso di tempo che abbiamo impiegato a farlo la situazione era già cambiata e loro non erano più il vero problema da affrontare. Se oggi l’Isis è una minaccia globale è perché abbiamo continuato a focalizzarci su Al Qaeda mentre era ormai in declino; allo stesso modo la lotta al cartello di Medellín ha portato all’eliminazione di Escobar, ma ha permesso la nascita e il rafforzamento del cartello di Cali, di cui parliamo nella terza stagione di “Narcos”. 

Eric Newman
Sarebbe questo, secondo me, il metodo più giusto di affrontare il problema delle droghe in America che, dopo la morte di Escobar, è diventato il più grande mercato di cocaina del mondo. Anche se il narcotraffico e la criminalità organizzata non sono un problema solo americano: basti pensare a quello che succede nel resto del mondo, o a quello che racconta la vostra meravigliosa serie “Gomorra”, di cui sono un grande fan. A questo proposito mi stupiscono molto le critiche (che mi hanno detto venire dall’Italia), di chi sostiene che serie tv come “Narcos”, o “Gomorra”, siano una glorificazione della mitologia del crimine. La strada che noi abbiamo scelto non è questa: non c’è lieto fine e i criminali non ce la fanno mai. Non per questo però possiamo rinunciare a mostrarli come esseri umani, perché, ci piaccia o no, loro sono esseri umani. Considerarli “mostri” sarebbe sbagliato e porterebbe solo a sottovalutarne il pericolo.
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Io non credo che esista un solo spettatore di “Narcos” che pensi «voglio diventare come Escobar» e credo che anche per “Gomorra” sia lo stesso: sono serie tv che mostrano la vita di persone che si muovono in un mondo disgustoso e violento. Certo possono esserci anche serie dove il male è glorificato, ma non mi piacciono. Da parte nostra in “Narcos” abbiamo celebrato la Colombia e quello che è riuscita a fare per superare il suo terribile passato. Medellín, che nel 1994 era la capitale dell’omicidio, si è trasformata oggi in una metropoli moderna, una capitale mondiale dove è meraviglioso tornare e che mi manca moltissimo. Quando abbiamo girato la prima stagione di “Narcos” la gente in Colombia, pur essendo molto educata, aveva nei nostri riguardi un atteggiamento sprezzante. Non si fidavano, perché evidentemente temevano fossimo i soliti americani che volevano stravolgere la realtà. Poi, quando hanno visto la serie, tutto è cambiato: hanno capito le nostre intenzioni, sono rimasti molto colpiti dal nostro approccio alla loro storia e da allora ci hanno aiutato in ogni modo.

Oggi del resto, anche se può sembrare curioso, il maggior numero di crimini impuniti mostrati in tv, sono quelli nelle serie ambientate nella Casa Bianca, da «Scandal» ad «House of Cards». Lì il tono però è diverso. Siamo di fronte a narrazioni di fantasia che, pur non avendo lo stesso numero di vittime, narrano le morti metaforiche dei protagonisti, destinati comunque a perdere i loro affetti e l’integrità morale.

Oggi in America siamo costretti a fare molta autocritica nei confronti della nostra amministrazione. Fino a poco tempo fa eravamo abituati a considerare la politica italiana come un circo, ma oggi noi siamo messi molto peggio. Per noi ora il «bunga bunga» sarebbe davvero il minore dei problemi: perché Trump è un Berlusconi sotto steroidi. Basta vedere il suo scontro con Kim Jong-un per tremare: sono due pazzi che strillano l’uno contro l’altro, minacciando catastrofi nucleari.

Nel mio futuro produttivo, dopo “Narcos”, di cui contiamo di produrre anche la quarta stagione, potrebbe esserci una tappa nel vostro paese. Anche se “Gomorra” sta facendo un bellissimo lavoro, a me piacerebbe raccontare la mafia siciliana. Per ora è solo un’idea, ma non si sa mai.

(testo raccolto da Oscar Cosulich)