Perché migliaia di italiani sono andati a vivere in Albania
Tanti nostri concittadini hanno scelto di lavorare e studiare nel paese balcanico. Per un mix di convenienza economica e possibilità. Qui ci spiegano le loro storie
Avete presente l’albanese che sogna l’Italia e rischia la pelle sul barcone pur di raggiungere la terra delle mille opportunità vista splendere di luci e paillettes sulle nostre tv? Ribaltate lo stereotipo anni Novanta: oggi è l’Albania il Paese delle opportunità. Non solo per le decine di migliaia di abitanti rientrati in patria dopo aver studiato nelle nostre scuole e università o appreso da noi mestieri e stili di vita. Anche per noi. Per gli italiani.
Che tra i residenti (chi va e viene, perché qua investe e lavora o studia) e i pendolari dal lunedì al venerdì (come fosse tra Roma e Milano e grosso modo con gli stessi tempi e costi) sono ormai stimati in ventimila. Sui 2 milioni e 800 mila autoctoni, fa più o meno quanto i 480 mila albanesi in Italia: un incrocio alla pari, almeno in percentuale.
Soffre gravi arretratezze, il Paese. Ha bassi salari e un sistema giudiziario solo ora in via di drastico repulisti da corruzione e compravendite di sentenze, una delle cinque ineludibili condizioni per avviare finalmente le trattative d’ingresso nell’Unione europea. Ma è in pieno fermento di ricostruzione, salta le tappe sfruttando le ultime tecnologie, e persino ciò che è rimasto come da noi negli anni Sessanta si rivela oggi, per astuzia della ragione o burla della storia, un atout vincente. «Qua riusciamo a costruire e sperimentare in modi e con una qualità che in Italia è diventata rara, quasi impossibile», giura Marco Casamonti, Studio Archea, mentre guida la visita al cantiere del nuovo stadio in costruzione nel cuore di Tirana, da lui disegnato come spazio da vivere 365 giorni l’anno, con hotel a 25 piani, negozi, centri medici e palestre, edificio simbolo della nuova rinascita insieme alla Green tower, sempre sua, e al rifacimento di piazza Scanderbeg, progetto invece belga.
Questione di costi, queste chance di eccellere e sperimentare: per gli standard albanesi 300 euro al mese sono un buon salario. Si può dunque scialare in manodopera. «È un fattore decisivo, ma non è l’unico», dice Casamonti. Da buon fiorentino, imbastisce un ragionamento sul cantiere rinascimentale «luogo del sapere, delle capacità manuali e professionali, dell’eccellenza», contrapposto a un cantiere italiano d’oggidì, «diventato solo un luogo di assemblaggio», manodopera da ogni parte del mondo, know how che si è spostato nelle aziende produttrici dei componenti. Dove va a parare? Detto con una certa enfasi: «oggi si può lavorare in Albania in un modo che non esito a definire rinascimentale».
O, per non rotolare troppo indietro nei secoli, «come si lavorava al meglio nell’Italia degli anni Sessanta». Si può avere il controllo diretto su ogni fase, il costruttore albanese Albstar fa sia l’acciaio sia il cemento armato, niente subappalti com’è ormai norma da noi e altrove.
Tempi veloci, «lo stadio sarà pronto in due anni e mezzo», mica come la Salerno-Reggio. E il lusso che ci si può permettere, «grandi spazi, quel tanto di magniloquenza e monumentalità data dal recupero e reinserimento della facciata del vecchio stadio progettato nel ’40 da un altro fiorentino, Gherardo Bosio», marmi e capitelli oggi numerati sotto un telo in attesa di rimontaggio. Come dire la trama della storia tutta italiana dell’architettura di Tirana (ministeri, Palazzo della Cultura, Museo nazionale, Accademia delle Arti, Banca nazionale, il piano regolatore di Bosio nel ’39 fino al masterplan di Stefano Boeri per il 2030) tessuta con l’ordito delle decorazioni, delle texture tradizionali albanesi nei colori di bandiera dell’aquila nera in campo rosso: fornite in prima persona dal primo ministro Edi Rama, lui stesso artista.
Il racconto di Casamonti serve da paradigma per capire, scomponendo gli elementi che la motivano, la fascinazione del “cantiere Albania” per noi italiani del 2018. Nei campi più disparati, non solo quando c’è di mezzo il mattone. Prendi uno come Vincenzo Pastoressa, dai laterizi alle mozzarelle. Lo spedisce a Tirana, nel ’95, il gruppo barese dov’è funzionario, joint venture con lo Stato albanese per recuperare il Palazzo della Cultura, sede anche del Teatro dell’Opera, seimila metri quadrati ora affittati in gran parte a società italiane.
«Avevamo una cava di marmo al confine con la Macedonia e una fabbrica a 100 chilometri dalla capitale, non c’erano strade, giravamo con la scorta, i nostri operai erano armati, nel ’97 era guerra civile tra destra e sinistra. Anni duri». Che non frenano i pugliesi all’assalto dei Balcani, per loro il cortile di casa: un’azienda calzaturiera di Barletta fa qui tutte le tomaie e il semilavorato, una di Andria l’intimo per grandi firme emergenti, e anche il Pastoressa si ritrova per un gruppo di Ostuni a produrre in Albania serbatoi d’acqua potabile e vasche per depuratori. Finché 15 anni fa l’ennesimo compaesano (sono un esercito, i pugliesi, un battaglione d’assalto) gli mette la pulce nell’orecchio: con tutte le mucche che hanno e le pizzerie che nascono come funghi, perché non ti metti a produrre mozzarelle e ricotte, burratine e stracciatelle, scamorze, caciotte e caciocavalli? Ora, racconta Pastoressa, la sua Fattoria italiana, caseificio di sole donne, copre l’80 per cento del mercato di Tirana, supermercati, alberghi, ristoranti italiani e albanesi. Ogni week end lui torna a Bari dalla moglie, sua figlia studia Medicina a Tirana al Buon Consiglio (ne diremo), sta per arrivare il figlio bocconiano a fare esperienza sul campo. Morale, non solo fai quattrini ma, «per via dell’alimentazione naturale a foraggio delle mucche nei villaggi intorno alla capitale, qui riscopri i sapori di trenta o quarant’anni fa che in Italia non trovi più». Vero, confermiamo.
Nascono così, imprese e business: per una combinazione di casualità e calcolo, la voglia di ribaltare la propria vita, uscire dalla comfort zone che ci si è costruiti fino ad allora, buttarsi in ciò che non sai e non sei. Era un manager della comunicazione Fiat, Francesco Milella, e mangiava sempre fuori casa: l’altr’anno fa il salto della quaglia, un giorno per aprire la società, venti per i permessi, un mese per ristrutturare ad arte i locali, un po’ di più per convincere lo chef e jazzista Leonardo Amoruso e apre il ristorante InPuglia.
Era invece direttore finanziario della Peroni poi senior executive Mercedes a Singapore, Irene Tosti, e non sapeva distinguere una pianta da un’erbaccia. Procede per vie tortuose: una spedizione per charity sul Kilimangiaro dove scopre che stiamo distruggendo il pianeta, una tesi sullo sviluppo sostenibile a Ginevra, l’impatto in Albania con una natura selvaggia e una guardia forestale ora suo socio. Così si ritrova a impiantare su uno splendido promontorio vicino a Durazzo una fattoria biologica dove, racconta, «coltiviamo piante medicinali per l’industria nutraceutica, quella degli integratori alimentari, clienti tutti tedeschi, austriaci, svizzeri, croati e italiani. Questo è il paradiso della biodiversità! Sa che di solo origano bianco crescono qui duecento specie? Ti arrabbi ogni giorno per i residui del mix di veterocomunismo e supercorruzione dei primi tempi post-regime fino allo scandalo dello “schema Ponzi” che rovinò mezzo paese, e mancano ancora saldi modelli di riferimento: ma è una nazione di giovani, fanno figli presto, l’età media a Tirana è 22 anni, le potenzialità sono enormi». Di vita come di business.
Non tutto è filato sempre così liscio, non è che ti butti allo sbaraglio e i soldi piovono dal cielo. Pasticci ne hanno combinati anche gli italiani. Avventurieri, sprovveduti e cialtroni, modello il Fiore di Lamerica di Gianni Amelio, per chi ricorda il film. O quei sedicenti imprenditori che un giorno affittano un lussuoso ufficio a Tirana sbraitando che sono lì per rivoltarla come un calzino, salvo sparire nel nulla nel giro di due mesi. O il Becchetti che due anni fa, dopo aver provato con energia idroelettrica ed ecoballe di rifiuti, arruolò Pupo, Caprarica, la Ferilli e s’inventò Agon Channel, tv italiana delocalizzata, presto sbaraccata, bis in forma di disastro della farsa annata ’97 di Striscia la Berisha, con i due conduttori dall’aria sfatta, le pezze al posto sbagliato e lo studio che cadeva a rotoli.
No, per avere successo le basi le devi possedere. «Dopo la crisi Lehman Brothers due soli erano i settori che continuavano a crescere: l’agricoltura d’eccellenza e il recupero rifiuti», racconta Silvia Minotti, Finanza in Bocconi e alla NY University, in Albania una prima volta su incarico della Banca Mondiale per seguire la privatizzazione delle banche («Ho scritto io la legge sulle assicurazioni dei depositi bancari»), 9 anni a Washington e 2 a Roma a seguire i Balcani alla Sace, l’Agenzia governativa di credito al nostro export. Lei e suo marito, tecnico nelle calzature, si sono buttati sui rifiuti: «Con 30 dipendenti, li raccogliamo qui, li valorizziamo separandoli meticolosamente per singolo tipo di carta e vetro e li esportiamo per essere riutilizzati in Italia, Austria, Serbia, Macedonia e Bulgaria». Ha certificazione Ue e un codice etico rigoroso, «non paghiamo mazzette, non facciamo regali». Perde troppo tempo in uffici, «la burocrazia non è ancora così light», il bimbo va alla scuola internazionale inglese «dove studia anche mandarino», e sì, magari fra qualche anno, «venderemo l’azienda e torneremo in Italia».
A scatenare gli investimenti, in questo paese in cui il 60 per cento dell’export finisce in Italia, giocano anche i cortocircuiti della globalizzazione, gli stessi per cui a Venezia bancarelle cinesi vendono a turisti cinesi maschere veneziane fatte in Cina. A Tirana, come sulla costa a Valona e Durazzo, chirurghi e odontoiatri italiani rifanno denti, seni, nasi e glutei a pazienti italiani in trasferta, in un pullulare di studi e cliniche italiane o in joint venture: turismo medico, prezzi allettanti per il basso costo di strutture e personale specializzato locale, pacchetti all-inclusive con annesso soggiorno balneare, due piccioni con una fava. Per il sapere vale lo stesso che per i glutei. No, non la laurea di Renzo Bossi, quello pseudo-ateneo il governo l’ha chiuso da tempo assieme ad altri del genere. Ma all’Università Nostra Signora del Buon Consiglio, dell’ordine dei Figli dell’Immacolata Concezione, docenti italiani insegnano in lingua italiana a un centinaio di nuovi studenti italiani ogni anno, più il doppio di locali. Una seconda chance, per chi nei nostri atenei ha bucato il test d’ammissione: «Ma guardi che qui su 700 siamo passati in 100, le lezioni sono obbligatorie, gli esami sugli standard ministeriali italiani», raccontano il bellunese Carlo Pomaré e il cosentino Gianmarco Pugliese, 21 anni, secondo di Medicina.
Pagano 8 mila euro l’anno di retta, «però spendiamo poco per vivere, la sera c’è la movida al quartiere Blloc, quasi tutti parlano italiano anche se i giovani si stanno orientando più sull’inglese. No, la loro lingua non la studiamo, giusto qualche parola per baccagliare un po’ con le non facili ragazze del posto». Finiranno a Tirana «almeno il secondo anno, col blocco dei tre esami di Anatomia», poi forse si iscriveranno a casa loro, così fan quasi tutti. Se invece completeranno qui i sei anni, dettaglia il rettore Bruno Giardina, «avranno laurea congiunta del nostro ateneo e di Roma Tor Vergata, lo stesso per Odontoiatria, con Bari per Economia e Farmacia, con Firenze per Architettura». E magari resteranno. O s’aggiungeranno all’esercito dei pendolari, l’Italia è a un tiro di schioppo, su 43 voli al dì in decollo dal nuovo aeroporto ben 31 hanno destinazione non solo Roma o Milano, ma Torino, Venezia, Ancona, Pisa, Bari, Verona, persino Pescara e Perugia.
Per un curioso intreccio di arcaicità e innovazione, è contagiosa la sottile frenesia di un paese che ricomincia: «Non hanno ancora imparato a mettersi in fila alle poste», racconta Francesca Tarallo, «ma Internet ce l’hai in dieci minuti e un negozio lo apri in tre giorni. Vivono un po’ carpe diem, ma hanno il senso del cambiamento continuo, lo slancio vitale di un futuro in costruzione. E tu senti di stare entro un flusso. Non come in Italia, dove ogni cosa è cristallizzata, le acque stagnano, le persone si lagnano sempre delle stesse cose». Lei, Francesca, a Tirana c’è arrivata con due bimbi piccoli al seguito di suo marito Gianmaria Picchi, ingegnere, spedito dall’impresa di Rovigo che ha costruito il depuratore della città. Finito quel lavoro, invece di tornare lui ne ha trovato un altro, e ora anche lei, stilista di gioielli, ha preso un laboratorio, arruolato ragazze albanesi «soprattutto della provincia, con bella manualità e un’abilità nel ricamo da noi scomparsa», cominciato a produrre bijoux artigianali e accessori di moda per il mercato italiano.
Un passo dopo l’altro, metti radici. Finché non te ne vai più. Com’è successo a Luigi Nidito, 72 anni, da Prato, editore, l’ultima storia che vogliamo raccontare: un po’ le ricuce tutte, e smonta l’idea che l’Albania sia sì vitale, irruente, complicata, povera, aperta, vogliosa di crescere, sgangherata e appassionata, ma non sia un paese per vecchi.
Nidito a Tirana è la rappresentazione plastica dell’aforisma di Einstein secondo cui la distinzione tra presente, passato e futuro è un’illusione ostinatamente persistente (sì, l’abbiamo pescata su Dark, la nuova serie Netflix, non è che giriamo con la Garzantina delle citazioni): lui ha una storia tutta socialista e di battaglie politiche, i primi contatti li prese quarant’anni fa, poi un viaggio all’anno, dal ’95 per 15 giorni al mese, quasi stabile dal 2007 con sua moglie Simona. S’è inventato il primo Lyons club (ora ce ne sono quattro), la Confimi Albania (scissione da Confindustria, 93 aziende e studi per 15 mila dipendenti), e l’unico circolo Pd (alle primarie la totalità dei voti a Renzi). Ha fatto tradurre Guareschi e Pirandello, pubblica cinque o sei titoli l’anno, prezzo massimo 5 euro. Quello che gli altri azzardano da quarantenni d’assalto, lui rivendica con accorata nostalgia: «Un mare di contraddizioni, l’ottimismo e la pazienza di un popolo che guarda avanti, la battaglia culturale, la passione politica. Ebbene sì: qui rivivo i miei anni Sessanta! Che potrei mai sperare di meglio?».