Gente chiusa in casa. Scheletri di cemento armato. Capannoni vuoti. La crisi ha colpito meno che altrove, ma la gente vive nel timore. E anche per questo crescono i gruppi neofascisti


Non è facile trovare posto nel ristorante dei nazifascisti brianzoli. Ma bisogna provarci, perché la serata è piena di sorprese. Il padrone più famoso è Fausto Marchetti, 39 anni, capopopolo degli skinhead di Lealtà e azione, la Casa Pound delle teste rasate lombarde.

Il suo punto di vista può essere riassunto in due righe su Facebook, proprio come fa lui: «Il multiculturalismo non esiste, esiste l’appiattimento, abbattimento di tradizioni ed identità, della cultura. Più ignoranza, più schiavitù». Il terzo socio in ordine di quota è l’ex assessore di una cittadina vicina, che d’estate usa Internet per mandare gli auguri a Mussolini: «Buon compleanno zio, per me sei e sarai sempre uno stile di vita», seguito da tre punti esclamativi. Non si sa se il Duce abbia mai risposto al nipote.

Il settimo comproprietario ha un posto da consigliere alle municipalizzate, fratello di un politico locale disarcionato cinque mesi fa da un’inchiesta penale su destra, costruttori e ’ndrangheta. «È solo? Prego, abbiamo l’ultimo tavolo libero», dice la cameriera e fa strada in una sala da tutto esaurito. Benvenuti a Desio, due periferie in una: quarantaduemila residenti al centro della provincia di Monza e Brianza e contemporaneamente paesone dormitorio della grande metropoli milanese. Abitanti stanziali o pendolari. Dipende dall’ora in cui suona la sveglia, la mattina per andare a lavorare.

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Anche l’amministratore del ristorante è un camerata socio di Marchetti. Jeans, camicia a quadrettoni, 35 anni, la sera lo trovi alla cassa o a intrattenere i clienti. Portano il menù e vai subito a cercare il risotto alla monzese con zafferano e luganega, oppure la cassoeula o la busecca. E, magari ci fosse, la torta paesana sulla pagina dei dolci. Tradizione e identità come diceva il padrone, giusto? Macché: «Il locale permette di cenare immersi in un’atmosfera intima e avvolgente, dove lo stile e la cultura etnica incontrano e si mescolano alla perfezione con quella occidentale...», hanno scritto per presentarsi.

È domenica 11 febbraio. Ottantanovesima ricorrenza dalla firma dei Patti lateranensi tra Stato e Chiesa. Ed è la serata più evocativa per venire a cena a pochi isolati dalla casa natale di Achille Ratti: passato alla storia come Pio XI, è il papa degli accordi con Benito Mussolini, morto a 82 anni il 10 febbraio 1939 alla vigilia dell’annuncio di un’enciclica mai pubblicata contro antisemitismo e razzismo. Troppo tardi anche per lui: sepolto il santo padre brianzolo dopo diciassette anni di pontificato e silenziosa convivenza con il fascismo, cestinata l’enciclica, Italia e Germania si sono incamminate verso la mortale distruzione.

Arriva il maître del ristorante: «Buonasera, vuole ordinare?». È egiziano. E va meglio così: perché è un ragazzo molto più spigliato e sorridente delle taciturne signorine brianzole che lo aiutano. Al di là della vetrata, nella cucina dei camerati la presenza multiculturale è addirittura massiccia: cinque cuochi su nove sono di origine straniera, almeno a giudicare da volti e occhi che si avvicendano ai fornelli. Fanno il 55,5 per cento, molto più della media cittadina di immigrati che a Desio si ferma al 9,7. Preparano sushi e piatti simili. Siamo insomma finiti in un ristorante finto giapponese. Farlocco come quelli cinesi che spopolano nei quartieri. Perfino il nome sull’insegna viene da fuori: si chiama “Shabu” e si pronuncia come la droga sintetica shaboo.
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Nemmeno i fascisti più militanti riescono a farne a meno, forse perché davvero non si può. Senza immigrati all’ora dell’happy hour non ti servirebbero neanche i cocktail della Brianza da bere. La provincia inventata nel 2004 da un governo Berlusconi la vedi sempre lì: ostinata a vivere i nostalgici anni Ottanta, come lo spot dell’amaro che lanciò il mito di Milano. La ragazza seduta al tavolo di fronte ha addirittura il piumino Moncler come si usava allora. Il fidanzato che l’accompagna calza vistosi scarponcini Timberland. Piumino e scarponcini, da paninari fuori calendario. Tante facce under trenta. I più vecchi non superano i trentacinque: nati al massimo nel 1983 come Walter Di Lillo, il gestore del ristorante, lo stesso anno in cui un socialista, Bettino Craxi, nel momento di assumere per la prima volta la presidenza del Consiglio si dichiara contro la ghettizzazione dell’Msi, il partito del voto fascista. È l’inizio dello sdoganamento concluso dal suo delfino televisivo, Silvio Berlusconi. Da allora fino all’ultima parata nera non hanno mai smesso di erodere le barriere della memoria. Soprattutto qui in provincia, dove sono partiti a centinaia per il corteo che a fine aprile 2017 ha portato mille braccia tese davanti alle tombe della Repubblica sociale al Campo X, nel cimitero Maggiore di Milano. Prima fila a destra, in quelle foto, con la felpa nera di Lealtà e azione, c’è proprio lui, Fausto Marchetti, il leader che combatte il multiculturalismo. Ma poi te lo serve a cena in salsa sushi. Business is business o meglio, con l’accento locale e la venerazione brianzola per denaro e affari: i danee sono danee.

Questo è l’unico buco aperto per chilometri quadrati in una domenica sera qualunque. La stessa posizione del ristorante è l’emblema del disordine. A sinistra l’officina che ripara parabrezza. A destra il gommista. Accanto, una sala scommesse. Di fronte il distributore dell’Eni. L’atmosfera intima e avvolgente non offre di meglio. La periferia brianzola è ridotta a questo: un’accozzaglia urbanistica che mescola fabbriche artigianali a ville di lusso, palazzoni della borghesia a impianti per la verniciatura dei mobili. E va già bene. Perché la spina dorsale del territorio, la superstrada Milano-Lecco che taglia in due la provincia monzese, mette in mostra rassegne di cadaveri in cemento armato e capannoni mai conclusi, orribili centri commerciali e showroom abbandonati. Il totem però è proprio qui. Lo puoi vedere da qualunque strada di Desio. Lo scheletro del grattacielo ti osserva, dai suoi ventidue piani lasciati a metà. E la notte lampeggia come un cimitero verticale nella sua costellazione di lumini rossi.

Sarà anche questo disordine di spazi e vuoti ad alimentare la paura che tiene chiusa in casa la gente. Lo ritrovi nel distaccamento del Tribunale soppresso dal 2014 o nell’abbandono per trasferimento della monumentale sede dell’Agenzia delle entrate, mentre i cittadini con le loro tasse finanziavano la costruzione del nuovo mega municipio. E te ne rendi conto passeggiando la sera per chilometri di strade deserte. Hanno speso centinaia di milioni di euro ovunque per illuminare a giorno marciapiedi su cui nessuno cammina o panchine su cui nessuno si siede. Desio, Seregno, Lissone e dintorni sembrano il set di un film da cui gli attori sono scappati.

Attraversi l’incrocio e ti chiedi se l’ennesima telecamera di fronte stia inquadrando te o il lato opposto della piazza. Ma poi, anche se ti stanno filmando, chi mai guarderà le immagini? Il risultato lo si scopre in poche ore: la spesa colossale in videosorveglianza ha rovistato negli stipendi di poliziotti, carabinieri o vigili urbani. Via gli straordinari, via le pattuglie fuori dagli orari d’ufficio. Per ore e ore, sere e notti di fila, non si incrocia un solo lampeggiante blu.

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Verso le tre del mattino un ragazzo in bicicletta dalla faccia italianissima passa davanti alla palazzina dove a Desio ha le sue vetrine Alberico Lemme, il dietologo reso famoso da Canale 5. Guarda nelle auto parcheggiate alla ricerca di qualcosa da sgraffignare. Forse anche i ladri hanno una fine turno, perché subito dopo lui va a lasciare i ferri del mestiere nei cespugli dietro la fontanella e le centraline telefoniche all’incrocio tra via Olmetto e via Pozzo Antico. Riparte molto più tranquillo ora. Ma quando si accorge che nella notte non è solo per strada, torna ai cespugli. Il ragazzo raccoglie da terra qualcosa e se lo infila dentro la cintura dei pantaloni, come si farebbe per nascondere una pistola, una spranga o un grosso coltello a serramanico. Risale in bicicletta e viene incontro piano piano. Forse non ha brutte intenzioni. Ma è meglio anticiparlo e fingere una telefonata al cellulare. Così, a voce alta, nel deserto: «Carabinieri? Buonasera, mi passi il colonnello. Abbiamo piazzato gli uomini a Desio, sono pronti a intervenire». La voce arriva anche a lui. E forse le intenzioni non erano proprio buone. Perché gira la bici e pedala via a tutta velocità. La paura, mia e sua, è anche questo.

La demografia della provincia però non basta a capire. Tasso di disoccupazione annuale in diminuzione in dodici mesi dall’8,8 al 7,4 per cento. Immigrati residenti all’8,4 per cento sul totale di 869 mila abitanti. Saldo naturale delle nascite sui morti in crescita di oltre mille bambini fino al 2011 e negativo soltanto negli ultimi due anni. Reddito medio di 17.500 euro. La crisi qui ha fatto meno macerie che altrove. Ma la sensazione di paura è già diffusa molto prima dell’inizio dell’emergenza sbarchi nel 2013. La si ritrova nei programmi elettorali di coalizioni in cui sono presenti la Lega ed esponenti di destra che, tranne periodiche eccezioni, sono al potere quasi ovunque. Compreso il capoluogo, Monza, dove l’assessore allo Sport Andrea Arbizzoni, ora candidato alla Camera per Fratelli d’Italia, è un camerata fascista di Lealtà e azione.
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Forse l’unicità brianzola nasce proprio dallo sdoganamento della paura, cominciato da un paese di questa provincia, Arcore, nella villa di Silvio Berlusconi. Un’alta concentrazione di predicatori e una diffusa assuefazione ai simboli hanno fatto il resto. Anche dove non te l’aspetti.

Ascoltate come viene celebrato con caratteri di bronzo il monumento al Bersagliere, inaugurato nel 1995 cinquant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il decalogo è ancora lì, nel parco davanti alla sede dell’Agenzia delle entrate oggi svuotata, pieno centro di Desio: «Cameratismo, sentimento della famiglia, onore alla bandiera, onore alla patria, fiducia in se stessi fino alla presunzione...». Anche il monumento dedicato al papa è circondato di memorie fasciste. Tra le quattro virtù cardinali ai piedi di Pio XI davanti alla basilica di Desio, la Fortitudo tiene in vista nella mano sinistra un grosso fascio littorio. Soltanto la bottiglia vuota di Estathe che qualcuno le ha messo in grembo rende un po’ meno solenne la scena.
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Uno dei collanti che oggi tengono insieme Lealtà e azione, Fratelli d’Italia e Lega è proprio la rete di locali notturni: ristoranti e discoteche, con qualche debolezza davanti alla ’ndrangheta. Come don Abbondio con i bravi o papa Ratti con i fascisti. Sembra una prassi secolare in Brianza. Poco prima delle dieci di sera si svuotano alcuni tavoli. E nel ristorante entra il politico locale disarcionato, fratello di uno dei soci. Se non è lui, è il suo sosia. Fino a cinque mesi fa Gianfranco Ciafrone, 56 anni, era assessore con il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e il vice Giacinto Mariani, a sua volta proprietario di una discoteca e un ristorante con uno dei soci di Desio. Mazza è del Pdl, Mariani è l’ambasciatore brianzolo di Matteo Salvini. Poi l’indagine della Procura di Monza per abuso d’ufficio obbliga tutti alle dimissioni con l’accusa di aver favorito un costruttore in contatto con i clan calabresi. È un ramo dell’ultima delle sedici inchieste antimafia che dal 1994 al 2017 hanno attraversato la Brianza: due per camorra, quattordici per ’ndrangheta. Dodici retate negli ultimi dieci anni. Addirittura sei nel biennio 2013-2014.

Nemmeno Ciafrone sembra passarsela male. Sanno tutti che sono scesi in campo i big nazionali. Uno è sicuramente il segretario lombardo, parlamentare e ora capolista della Lega, Paolo Grimoldi, sempre accanto a Mariani anche dopo lo scandalo. L’altro è l’ex ministro Maurizio Lupi. Poco prima di Natale è proprio Lupi a riabilitare in pubblico il sindaco dimissionario. Terminata la cena con gli imprenditori di Monza e Brianza, tra cui molti esponenti di Confindustria, chiama al suo tavolo Edoardo Mazza, che era stato intercettato mentre diceva al costruttore amico della ’ndrangheta: «Ogni promessa è debito, no?». Applauso. Lupi: «Non ho mai creduto alle accuse». E contro i magistrati: «Questo è uno dei più gravi problemi del Paese». Applauso più forte.
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Il conto nel ristorante multiculturale dei nazifascisti brianzoli alla fine è 33,50 euro: 26 di prezzo fisso, più le bevande. Nel 2016 lo Shabu ha dichiarato un incasso di 911.507 euro, per un totale di oltre venticinquemila clienti in un anno. Un fatturato record prodotto per più della metà dai dipendenti stranieri. Basta non farlo sapere in giro. E tenere alta la tensione.

Uno dei proprietari, il “nipote di Mussolini” Nicola Viganò, 50 anni, altro ex assessore nel passato di Mariani, questa settimana se la prende con il Festival di Sanremo. Sulla sua pagina rilancia la foto di Pierfrancesco Favino durante il monologo che racconta le peripezie di un immigrato: «Complimenti», gli scrive, «anche tu hai iniziato a fare il pagliaccio. Ma non ti preoccupare: il 4 marzo umilieremo anche te».

( 4 - continua. Questa, dedicata alla Brianza è la quarta puntata di una serie di inchieste-reportage di
Fabrizio Gatti sulle periferie italiane. Le prime tre sono state dedicate a Torino, Brescia e Ferrara)