Senza immigrati sarebbe vecchia. E più povera. Ma la xenofobia cresce. Soprattutto tra i giovani. Il leader dell’estrema destra studentesca: «La donna deve tornare alla sua natura, fare figli»


La sera, subito dopo l’intervista al figlio, telefona la mamma: «Le chiedo un favore: non scriva il nostro cognome, la prego. Nostro figlio ha solo vent’anni. Può ancora cambiare le sue idee. Pubblicare la sua identità, significa rovinarlo per sempre». Mette i brividi sentire come la periferia tra il mondo e l’immondo possa facilmente attraversare una tranquilla famiglia lombarda. Il papà ricercatore, la mamma assessore di centrosinistra in un piccolo paese della provincia bresciana. E il loro ragazzo già leader di Forza nuova al liceo che parla di razza, del parroco traditore e di come cacciare via tutti gli immigrati. Proprio tutti? «Va favorito un ritorno, non bisogna permettere a nessuno la permanenza prolungata», sostiene Lorenzo, oggi studente al primo anno di Sociologia e va bene, niente cognome.

La gente in via Corsica, quartiere don Bosco dietro la stazione di Brescia, torna dalla fabbrica e dagli uffici che è già buio. Passano a piedi, o in bicicletta. E hanno quasi tutti la pelle scura. Sono stranieri o nati da genitori stranieri. Li guardi e ti chiedi come sarebbe senza di loro la seconda città più grande della Lombardia. Via il trentotto per cento dei piccoli da zero a quattro anni. Via 7.868 bambini e ragazzi fino a quindici anni, il trenta per cento sul totale dei coetanei. Via 28.138 persone tra i quindici e i sessantaquattro anni, il 23 per cento della forza lavoro che il 4 marzo non potrà votare. Via tutti i residenti non italiani: 36.767 persone, cioè il 18,7 per cento dei 196 mila abitanti attuali, la più alta concentrazione nazionale per una città, insieme con Milano e Prato.

Se le idee che preoccupano la mamma di Lorenzo ottenessero la maggioranza del Parlamento, Brescia si ridurrebbe a una cittadina di 159 mila abitanti: meno di quanti ne aveva tra il 1951, quando Nunzio Filogamo presentava alla radio la prima edizione del Festival di Sanremo, e il censimento del 1961, anno della costruzione del Muro di Berlino. Ma soprattutto sarebbe una città inesorabilmente vecchia: con 47.525 bresciani sopra i sessantacinque anni, il trenta per cento sul totale, più del cinquanta per cento della potenziale forza lavoro, a sua volta condannata a mantenerli pagando a molti di loro la pensione. Sarebbe una mazzata economica, non solo demografica. E senza manodopera, addio record che rende Brescia uno dei primi distretti industriali d’Europa: 35 miliardi di Pil, 10 miliardi di valore aggiunto, centosessantamila posti di lavoro.

L’economia qui è tornata a pedalare. Molto lentamente. Ma pedala. Lo si annusa nella puzza che impregna il respiro non appena la notte nasconde i fumi delle fabbriche. Eppure la geografia dei consigli comunali leghisti eletti appena fuori città dimostra che da queste parti sono migliaia i lombardi convinti dall’utopia (o distopia) dello sviluppo senza operai. Per questo Brescia non è soltanto la provincia lombarda più orientale, al confine con il Veneto. Del Nord Est è anche la porta ideologica: nei paesi curati fino all’ossessione non si incontrano ghetti o quartieri fuori legge. Non esistono isolati militarmente occupati dagli spacciatori.
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La povertà scrosta le facciate soltanto in qualche cortile e ai numeri alti di via Milano, periferia occidentale del capoluogo, dopo il cimitero. Il deserto a un’ora di autostrada da Milano affiora invece nelle parole, nella presunta identità italiana o addirittura bresciana impugnata come scorciatoia per interpretare la realtà, nell’incapacità di gioire dei propri successi, nel bisogno costante di avere paura. E se niente e nessuno fa paura, basta inventarne la sua percezione.

Come? L’ordinanza del sindaco è il soffietto amministrativo più usato per ravvivare il fuoco del popolo. Le terre bresciane ne hanno coltivate a decine, accanto a inamovibili risoluzioni dei consigli comunali. Come l’obbligo per i non residenti di chiedere e pagare con dieci giorni lavorativi d’anticipo l’autorizzazione per un normale pic-nic domenicale, nel parco realizzato con i soldi pubblici dell’Unione Europea (2016, Castel Mella, undicimila abitanti, 8,3 per cento stranieri). Il premio ai vigili urbani per ogni immigrato irregolare fermato (2006, Adro, settemila abitanti, 6,1 per cento stranieri). O il provvedimento che vietava ai non cristiani di avvicinarsi a meno di quindici metri dalle chiese (2000, Rovato, diciannovemila abitanti, 21,5 per cento stranieri). E suor Anna che per protesta si avvicinava, ogni giorno con un cartello diverso: “Sono musulmana”, “Sono ebrea”. Da allora sono trascorsi diciott’anni di fascismo militante, spacciato per autonomia e voglia di secessione.

Il liceo statale dedicato alla poetessa Veronica Gambara ha diplomato generazioni di insegnanti bresciani. La targa all’ingresso della biblioteca ricorda Clementina Calzari Trebeschi, la professoressa di italiano del Gambara morta a 31 anni il 28 maggio 1974 nella strage di piazza della Loggia. Quel giorno la bomba fatta esplodere in mezzo a una manifestazione contro il terrorismo neofascista uccide anche il marito di Clementina, Alberto Trebeschi, 37 anni, professore di fisica. Tra le otto vittime dell’attentato, cinque sono insegnanti. Oggi il Gambara è un indicatore sociale. La sua sede in centro raccoglie studenti dai quartieri benestanti, ma anche dalla periferia e dalla provincia. Avendo un passato di istituto magistrale, la maggioranza sono ragazze.

E tra di loro, il colore dei volti oppure il velo sui capelli misura il successo della scuola come officina di una nuova comunità. L’allarme suona nel 2015 con l’elezione dei rappresentanti degli studenti: la lista “Lotta studentesca” del partito fascista Forza nuova prende 168 voti e non passa. Ma dodici mesi dopo, per l’anno scolastico 2016-2017, fa il pieno: 780 voti su circa milleduecento allievi, il 65 per cento.

Gli eletti vengono addirittura dal corso in scienze umane. E il più votato è proprio Lorenzo, 460 preferenze contro le 98 dell’anno prima. Come avete fatto? «Ci siamo proposti un po’ più moderati», risponde lui, capelli corti sulle orecchie, ciuffo tirato da parte, maglione grigio con lo stemma della Marina militare e un rosario di legno nella tasca sinistra del giaccone. Ci sediamo nel bar di fronte a un negozio che da giorni espone in vetrina il cartello “Cercasi personale” e non lo trova. «Io ad esempio mi sono tolto gli anfibi», aggiunge con un sorriso. Qual era il vostro programma? Escludere gli stranieri dal diritto allo studio? «No, no, abbiamo proposto e ottenuto gli specchi nei bagni». Per una lista identitaria lo specchio per guardarsi è quasi un lapsus freudiano: la forma più rudimentale di selfie. O forse, come minimizzano oggi alcune insegnanti, è l’alta utenza femminile ad avere decretato il successo di tre maschi fascistelli. Cosa le fa più paura? «Il lavoro che non c’è», dice subito Lorenzo. Poi? «Che ciò che mi rappresenta come comunità sparisca, nella religione, nella gastronomia, nella lingua locale. Il vuoto favorirà l’islamizzazione dell’Europa».

Qual è il ruolo della donna nella società? «La donna deve essere l’angelo del focolare. Non è una costrizione, questo deve entrare nella testa delle donne: la donna deve tornare alla sua natura di fare figli e stare a casa».

È la stessa visione degli estremisti islamici: che effetto le fa aderire a un partito fondato da Roberto Fiore, condannato per reati di terrorismo? «Non ho approfondito la questione. Ma faccio i complimenti alle musulmane che si coprono il volto, rispettano la loro cultura. Comunque ho lasciato Forza nuova. Dopo un breve periodo in Generazione identitaria, sto dando il mio contributo alla nascita di Brescia ai bresciani». Cosa voterà il 4 marzo? «Forza nuova. Avrei votato Salvini, se non si fosse schierato con Berlusconi».

Fascisti, identitari, leghisti, astenuti, disinteressati. È un magma giovanile in attesa di un leader comune, che magari mettendo gli elettori davanti allo specchio distolga i più distratti dalle vere intenzioni. Proprio come al Gambara. Era normale che prima o poi accadesse, in un liceo che fonda le sue radici popolari nella città e nella provincia. Oggi, con il passaggio all’università dei rappresentanti eletti, rimangono le riflessioni sulla facilità con cui è successo. Tra le paure attuali degli studenti di quinta che quest’anno voteranno per la prima volta non appare affatto l’immigrazione. Eccone una lista, dopo un breve incontro: l’ignoranza della gente, la politica estera degli Stati Uniti, non avere la sicurezza economica attraverso il lavoro, deludere gli altri...

Non significa che la convivenza sia una condizione scontata. L’onda lunga della crisi ha portato la disoccupazione dal 3,2 al 9,1 per cento. Dal 2007 al 2013 la natalità bresciana è crollata del 21 per cento e del 3 per cento tra gli stranieri. Il 22 per cento dei nati italiani può usufruire dell’asilo nido, contro il 10 per cento delle famiglie immigrate. Il 32 per cento dei bresciani sopra i 65 anni vive solo. Il 16 per cento di chi chiede aiuto alla Caritas ha un lavoro, ma non uno stipendio che permetta l’autosufficienza. Nella graduatoria in attesa di una casa popolare, sono stranieri 69 assegnatari tra i primi cento. E a Vobarno in Val Sabbia, 8 mila abitanti, 16,4 per cento di immigrati, lo sono 62 su 74, l’83 per cento degli aventi diritto.

L’identità è una brutta bestia. Perché, come insegna il sociologo irlandese Benedict Anderson, si genera parlandone. Per mostrarne i possibili effetti, Marco Traversari, 54 anni, insegnante del Gambara e tra gli antropologi più attivi del momento, ha portato i suoi studenti a Srebrenica, sui luoghi del genocidio di ottomila musulmani massacrati nel 1995 dall’unità serba del generale Mladi?. «La crisi e il taglio al welfare crea scarsità di risorse e quando le risorse sono scarse, il discorso dell’identità culturale e di appartenenza rientra in gioco», spiega Traversari: «Alle battaglie universaliste del sindacato in cui tutti abbiamo gli stessi diritti si contrappone il relativismo della destra: loro lottano per un solo gruppo etnico. Vogliono l’etnicizzazione del conflitto».

Se il puzzle bresciano non si sgretolerà, sarà grazie all’argine sociale innalzato in totale solitudine molto prima che l’attuale giunta di centrosinistra venisse eletta cinque anni fa. Don Fabio Corazzina, 57 anni, parroco di Santa Maria in Silva, è uno dei costruttori. Il suo oratorio accoglie i visitatori con le parole dell’arcivescovo Carlo Maria Martini: “Lasciateci sognare”. Ed è frequentato da centinaia di dreamer italiani: la generazione di bambini che è nata in Italia, studia in italiano, forse lavorerà in italiano. Ma rimane straniera. Non è necessario essere cristiani per entrare. Don Fabio accoglie tutti e il pomeriggio arrivano le mamme straniere con i loro figli per il doposcuola gestito da volontari cattolici e anche musulmani. La scuola media del quartiere, su tre classi di prima, ha solo due alunni italiani. Brescia è un modello di insegnamento, anche al quartiere del Carmine. «Ma fra i cosiddetti stranieri», aggiunge don Fabio, «il sessanta per cento dei bambini è nato in Italia. Li guardi: ci sono trenta provenienze diverse. Se io aspetto che qui vengano solo cattolici, posso chiudere. Serve tempo. E il tempo necessario a conoscersi non è il tempo amministrativo. Il doposcuola esiste da otto anni. Sikh indiani e imam hanno a loro volta aperto i loro luoghi di culto alle visite delle scuole. Non bisogna smobilitare la convivenza nei quartieri».

[[ge:espresso:attualita:1.318334:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2018/02/15/news/il-lato-oscuro-di-ferrara-tra-spaccio-e-mafia-nigeriana-1.318334]]Quando don Fabio ha portato i parrocchiani in Baviera a visitare i luoghi della Rosa bianca, il movimento di studenti cristiani decapitati per essersi opposti al nazismo, i fascisti bresciani gli hanno ricoperto la macchina di svastiche. «L’identità è un tema di destra. Ma l’identità cattolica non è un tema di destra», afferma, «perché è un’identità evangelica: significa accogliere il prossimo come ha detto Gesù. La Lega è stata sdoganata per una superficialità culturale e la chiesa del Nord ha le sue responsabilità. Il magistero sociale della chiesa risale all’enciclica Rerum Novarum, 1891, e già parlava di salario minimo familiare». L’altro costruttore dell’argine, Umberto Gobbi, 55 anni, cofondatore di “Radio Onda d’urto” e dell’associazione “Diritti per tutti”, lo trovi la mattina presto a rinviare lo sfratto di una mamma marocchina separata e delle sue tre figlie. Grazie a un protocollo condiviso con prefettura, Comune, forze dell’ordine, si cerca sempre una mediazione per attivare il canone moderato o trasferire la famiglia in una casa popolare. Gli sfratti hanno rischiato di incendiare Brescia. Nel 2014 erano 800 in città e duemila in provincia. L’anno scorso sono scesi a 199. Ma aumentano i pignoramenti degli appartamenti di quanti non sono riusciti a pagare il mutuo: in Tribunale passano di mano quasi cinquecento alloggi al mese. Gobbi si fa sempre accompagnare da un gruppetto di volontari. Qualcuno è italiano, qualcuno straniero. Anche questa è mediazione culturale. Lui sorride: «Chi crede di trovarsi sul lastrico per colpa degli immigrati si trova spiazzato. Diventa chiaro anche agli sfrattati italiani che senza solidarietà sarebbero finiti sulla strada».

( 2 - continua. Questa, dedicata a Brescia, è la seconda puntata di una serie di inchieste-reportage di Fabrizio Gatti sulle periferie italiane. La prima era dedicata a Torino)