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Politica
marzo, 2018

Elezioni 2018: al voto tra incertezza, populismo e voglia di astensionismo

Conclusa la campagna elettorale meno entusiasmante che la storia ricordi, son cadute tutte le certezze: persino quella sulle larghe intese. Domenica sera la diretta sull'Espresso con lo spoglio dei voti

Comunque vada, non sarà un successo. Finita la campagna elettorale meno entusiasmante che la storia ricordi – malcerta, annebbiata, in bilico tra populismo, estremismo e voglia di astensionismo – l'Italia si appresta al voto con un sistema elettorale nuovo, il Rosatellum, le cui sorprese sono tutte ancora da venire (l'Espresso seguirà la diretta dello spoglio domenica). I sondaggi delle scorse settimane hanno certificato l'assenza di una maggioranza. Non è una novità integrale, il tripolarismo di sinistra, destra e Cinque stelle, l'abbiamo già conosciuto nel 2013, anche se in una versione più gestibile di quella che si annuncia oggi. Eppure guardarsi indietro non aiuta. Anzi.

Cinque anni fa, giusto alla vigilia del voto, Nanni Moretti saliva sul palco di Pier Luigi Bersani dicendosi speranzoso di festeggiare, la «liberazione» dal Caimano: queste elezioni, un lustro dopo, sono la consacrazione del ritorno di Silvio Berlusconi, nel frattempo condannato, decaduto, incandidabile, eppure anche stavolta sulla scheda elettorale, accanto al simbolo di Forza Italia. Al contrario Angelino Alfano, che nel 2013 era stato incoronato suo successore, a queste elezioni nemmeno si presenta. Cinque anni fa Bersani, segretario Pd, prometteva che l'approvazione dello ius soli sarebbe stata «il primo atto che ci proponiamo di compiere nella prossima legislatura»: governo che mai è stato, legge che non è arrivata. Berlusconi giurava che avrebbe abolito l'Imu, come ha poi ha fatto il governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. Nessuna traccia vi è delle promesse di Matteo Renzi, che aveva appena perso le primarie del Pd.

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Brevi cenni sul passato che servono a ricordare come cinque anni fa, alla vigilia del voto, si fosse sull'orlo di uno stravolgimento che era, nel migliore dei casi, largamente sottovalutato. «In due anni cambierò l'Italia», chiariva intanto Beppe Grillo da piazza San Giovanni a Roma. Nei sondaggi di allora, i Cinque stelle erano il secondo partito dopo il Pd: dopo il voto, il loro no a qualsiasi alleanza congelò il Parlamento – dopo un micidiale stallo – a delle larghe intese che stavolta sono ancora meno solide, almeno a stare alle percentuali ipotetiche dei sondaggi.

Anche il movimento Cinque stelle però nel frattempo è cambiato, ed oggi Luigi Di Maio, il capo politico di quel mondo il cui slogan fu “uno vale uno”, oggi non fa mistero di essere pronto – previ accordi minimi - a governare con chiunque ci stia. L'ostentata anticipazione della sua eventuale squadra di governo, accoppiata con la completa indifferenza con la quale l'iniziativa è stata accolta dal capo dello Stato, ci portano dritti nel luogo che – nell'incertezza generale – sarà nevralgico per il dopo voto. Il Quirinale, che cinque anni giocò da protagonista nello stallo del dopo voto. C'era un altro inquilino, però.

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