Prima del voto Matteo Salvini ha agitato un rosario tra le mani durante un comizio in piazza Duomo a Milano, dopo aver giurato in modo blasfemo sul Vangelo, offendendo in un colpo solo la coscienza religiosa e laica e costituzionale, rompendo quella separazione tra la sfera politica e la dimensione della fede che distanzia l’Occidente dal fondamentalismo islamico e che proprio il cristianesimo ha introdotto nella nostra cultura duemila anni fa.
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Dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è Dio: la laicità della politica nasce così, con un imperatore che non è più una divinità e un credo nella trascendenza che non pretende di diventare automaticamente legge civile. Lo avrebbe scoperto, il capo della Lega, se avesse aperto quel libro, trovando altre poche cose su cui essere d’accordo. Il rosario in piazza, in un comizio, non è mai stato sventolato durante le campagne elettorali della storia repubblicana, neppure settant’anni fa, neanche i comitati civici di Luigi Gedda in vista del 18 aprile 1948 arrivarono a un uso così cinico e spregiudicato della religione: c’erano le statue mariane che giravano di città in città, i rosari di riparazione, le segnalazioni di madonne piangenti.
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Dalla Lega santa alla Lega di Salvini è un bel salto, ma in tutte le cancellerie europee seguono con particolare attenzione e preoccupazione il risultato elettorale della lista del Carroccio, «la menace italienne», l’ha definita “Le Monde” del 28 febbraio, perché in Francia, Germania, Austria, Olanda, nelle democrazia scandinave, nei paesi dell’est, nel cuore del Partito popolare ex democristiano dove si è infilato senza suscitare scandalo il premier nazionalista ungherese Viktor Orbán, ovunque c’è un partito fratello dei leghisti, pronto a imitare il modello. E lo stanco e sfibrato Silvio Berlusconi visto in queste settimane non sembra in grado di arginarlo.
Prima del voto, Luigi Di Maio ha presentato alla spicciolata la sua lista dei ministri, un manuale di mala educación costituzionale, nonostante la decisione di anticipare la mossa al segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti e la «cortesia istituzionale» vantata al momento di spedire la mail con i nomi al presidente della Repubblica. Nomi di «personalità a disposizione del Paese», ha detto il capo politico del Movimento 5 Stelle, una lista che suona come la definitiva rottura del tabù grillino del 2013.
Il Movimento 5 Stelle di Di Maio vuole governare, con nessuno e se necessario con tutti, che poi è la stessa cosa, perché l’importante è evitare la scelta di campo che definisce un’identità politica: la destra e la sinistra che saranno pure sparite sul piano ideologico ma che restano una tavola di valori per orientare le priorità, i mondi sociali di riferimento.
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Da questo punto di vista l’indicazione a ministro all’Ambiente di un generale dei carabinieri in servizio, ora in licenza «per non condizionare la sua attività», vale come il rosario di Salvini. In passato sono stati eletti parlamentari generali e stellette in pensione, spesso nell’antico Movimento sociale, da Giovanni De Lorenzo a Vito Miceli, ma al di là delle qualità personali del generale Sergio Costa, un servitore dello Stato, è la prima volta a memoria che un alto grado dei carabinieri viene candidato a un incarico politico prima della cessazione delle sue attività. Un segnale: il Movimento 5 Stelle dall’anti-politica si muove per rappresentare la sfera della responsabilità nazionale, impersonata dal generale Costa, ma anche l’area grigia di un elettorato moderato che richiede ordine, un’inedita maggioranza silenziosa (maggioranza relativa, s’intende), che non vota più per i partiti di governo ma per la rottura della continuità. Salvo poi, dopo le elezioni, rendersi disponibile per qualunque manovra, schema di gioco, alleanza.
Prima del voto, di fronte a questa sfida, le forze di governo democratiche, progressiste, quelle che amano auto-definirsi illuminate e europee, si sono dimostrate clamorosamente inadeguate a queste sfide. Valga per tutti lo spot in due puntate con cui il Pd ha chiuso i suoi appelli al voto. Un papà tipico esponente del ceto medio riflessivo, come lo chiamava qualche anno fa lo storico Paul Ginsborg (fuor di metafora: un gran rompipalle), che «questa volta, comunque» non vuole votare Pd e tutto il resto della famiglia che lo sommerge di parole, dati, numeri, per bloccare la sua tentazione, arrivando alla fine a convincerlo.
Un messaggio efficace se destinato all’indeciso di sinistra, merce pregiata del mercato politico alla vigilia del voto, ma anche la raffigurazione come proprio riferimento sociale di una tranquilla famiglia borghese, benestante, centrista nel senso di abitante del centro storico. Un immaginario non anti-populista ma tecnicamente anti-popolare, distante dalle periferie del dramma che fa da benzina per le nuove destre, dalle generazioni più giovani che si sentono abbandonate dalla politica. Lontanissimo da un appello alla missione comune, ad alzarsi insieme e fare qualcosa per il proprio Paese, insieme, together, come nello strepitoso video del democratico Bernie Sanders per le primarie del 2016 (che il senatore perse contro Hillary Clinton, però).
Tutto questo valeva “prima” del voto, ma ora siamo già nel dopo. Nel day after che deve guidare le analisi post-elettorali. «Siate indipendenti. Non guardate al domani ma al dopo domani», scriveva quarant’anni fa agli amici di partito Aldo Moro dalla prigionia delle Brigate Rosse. L’hanno ascoltato in pochi, in questa campagna elettorale, candidati a blindare l’esistente: gruppi dirigenti, cerchie di fedelissimi, zone di influenza. Il cambiamento è sparito dall’orizzonte. È la campagna elettorale dei condoni, che non sono una misura economica o sociale, ma l’indicazione di un destino: sanare le brutture del passato senza preoccuparsi del futuro. E chissà quanti elettori hanno votato pensando al domani addirittura al dopo domani.
Votare per il domani significa allargare l’orizzonte almeno fino al 2019, l’anno cruciale per l’Europa e dunque per l’Italia. Lunedì sapremo chi ha vinto, o non ha vinto, le elezioni in Italia, ma anche com’è finito in Germania il referendum tra gli iscritti della Spd, il partito socialdemocratico, chiamati a votare per il via libera alla Grande Coalizione. Domani si comincia a parlare di nuovi trattati, una nuova governance europea, nuovi partiti transnazionali in vista delle elezioni europee del 2019 che devono fare corpo e consenso elettorale al progetto di Emmanuel Macron: una divisione che trasformerà anche i partiti italiani. Domani scade il mandato di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea.
Votare per il dopodomani significa pensare che usciti dal seggio elettorale si è dato il consenso a un partito non appiattito sull’oggi, i suoi rapporti di forza, le sue grandi e piccole emergenze, l’emotività di un fatto di cronaca che condiziona una scelta elettorale che dovrebbe valere per i cinque anni successivi. La disuguaglianza, la mancanza di un’equa distribuzione del reddito, l’innovazione, l’intelligenza artificiale che cambia il modo di produrre, lavorare e consumare e di muoversi, entrare in relazione con gli altri, immaginare il futuro.
L’immigrazione, i nuovi lavori, sono emergenze che stritolano le certezze, se viste con gli occhi di oggi, sono il mondo in cui vivremo, se visti con gli occhi di domani e di dopodomani. Avremmo bisogno di intellettuali che ci aiutino a decifrare i segni dei tempi, interpretare, leggere il mondo che verrà. Ma anche gli intellettuali italiani sono stati in gran parte silenziosi, afoni, forse spaventati, nelle settimane della campagna elettorale. E c’è chi ha parlato per dire, a proposito dell’organizzazione di un importante evento editoriale, che nessuno fa male alla cultura quanto un intellettuale. Un’altra voragine che si apre nella classe dirigente italiana, che è sempre stata plurale, polifonica, non limitata soltanto ai rappresentanti della politica.
C’è il timore che il voto del 4 marzo sia stato soprattutto un voto per l’oggi. Destinato perciò a durare poco, a sciogliersi come questa neve di fine inverno al sole dei primi scontri politici. E se così fosse, sarebbe ancor di più un voto rivolto al passato. Eppure, nonostante la sfiducia, il disgusto, il disincanto, ci sono ottime ragioni, ragioni ancora più forti, per guardare alla giornata che viene pensando di aver esercitato il diritto e il dovere di voto pensando al domani e al dopo domani.