Il lungo addio tra Gran Bretagna e Unione Europea rivela l’immaturità di una nazione che dimentica la contemporaneità. L’analisi dello studioso della Postdemocrazia

Theresa May
Com’è possibile che un paese “maturo” e con una buona reputazione delle sue istituzioni pubbliche, butti via i rapporti economici che ha costruito in 45 anni con grandi parti del mondo, senza aver alcun progetto chiaro per costruirne di nuovi? Com’è possibile, che un tale paese dimentichi che il mondo contemporaneo è un mondo dell’interdipendenza tra nazioni e non di una sovranità pura alla diciannovesimo secolo?

Queste sono state le questioni principali sottoposte al mio paese, la Gran Bretagna, dopo il voto per lasciare l’Unione europea del 23 giugno 2016. E sono tornate con una nuova urgenza dopo una domanda semplicissima rivolta da un giornalista tedesco al primo ministro britannico Theresa May: «Vale la pena?». La domanda è stata formulata dopo un discorso della May, nel quale aveva ammesso che la Brexit porterà disagi per entrambi: l’Ue e il Regno Unito stesso. Il primo ministro ha ammesso che il paese non si può aspettare tutti i benefici del mercato unico se non ne accetta gli obblighi. E ha anche promesso che la Gran Bretagna non avrebbe usato il suo addio per smantellare le regole europee del mercato di lavoro, dell’ambiente e altre norme, facendo seguire una concorrenza aggressiva, la cosiddetta “race to the bottom” (corsa verso il basso). Dunque Theresa May credeva che gli altri paesi dell’Unione europea avrebbero trovato facile raggiungere velocemente un accordo generoso con la Gran Bretagna.

Un paio di mesi fa il ministro degli Esteri, Boris Johnson, aveva invece chiaramente detto che nelle negoziazioni con Bruxelles la Gran Bretagna poteva «avere la sua torta e mangiarla», mantenere tutti i privilegi di un membro dell’Unione senza quasi alcun obbligo.

La relazione di May è stata la prima occasione in cui un ministro britannico ha ammesso e accettato il fatto che il processo della Brexit è problematico e che include svantaggi importanti. Da qui la domanda del giornalista tedesco.

Tuttavia, anche la May si aspettava che la Gran Bretagna potesse tenersi molti pezzi della torta. Il primo ministro aveva insistito che si aspettava molti più diritti di accesso, ma molti meno obblighi. E che non avrebbe accettato che le istituzioni europee decidessero se il paese avesse rotto le regole della Brexit.

May, inoltre, voleva un “accordo” sulla dogana - la parola inglese che aveva usato, “arrangement”, è più vaga che accordo - ma rifiutava un’unione doganale. Accettava che molte delle istituzioni dell’Ue fossero importanti per il Regno Unito e voleva mantenere con esse legami stretti; ma da fuori.

E ancora: aveva chiesto che l’Unione prendesse atto che il paese non avrebbe seguito una “corsa verso il basso”, ma aveva sottolineato anche che il parlamento britannico conserverà il diritto di cambiare questo approccio. Si deve ricordare, inoltre, che anche alcuni importanti membri del governo britannico hanno annunciato l’intenzione di seguire precisamente un corso di deregolamentazione, secondo una visione del Regno Unito come la “Singapore dell’Atlantico”. Infine, nella sua risposta al giornalista tedesco Theresa May disse: «Non ripensiamo la Brexit». Aggiungendo poco dopo che «ci sono dei fatti difficili da confrontare».
Per capire come il Regno Unito e chi lo governa siano arrivati a questo punto, pieno di contraddizioni, dobbiamo tornare alla mentalità dei veri “brexisti”. I quali hanno un “Credo” che riassumerò in otto punti (con i miei commenti critici).

1. L’Europa è più dipendente da noi di quanto lo siamo noi dall’Ue, perché il valore dei beni e servizi che gli altri paesi vendono a noi è maggiore del valore di quelli che vendiamo a loro. (Hanno calcolato il valore assoluto e non percentuale; ma è quest’ultimo che indica l’importanza relativa.)

2. Noi compriamo più prosecco dall’ Italia che altre nazioni, e più macchine dalla Germania. Gli europei non metteranno a rischio questo commercio solo affinché si salvi il mercato unico. (Sottovalutano totalmente il valore di un tale mercato senza barriere per la vita economica europea, anche del Regno Unito stesso.)

3. Fuori dell’Europa possiamo vendere beni e servizi alla Cina, all’India, a tutti i paesi del mondo che stanno via via diventando più importanti dell’Europa. (Non vedono, che i tedeschi, gli italiani e molti altri hanno già rapporti commerciali forti con questi paesi. Non serve uscire dall’Unione europea per intrattenere e incrementare rapporti commerciali con questi paesi).

4. Fuori dell’Europa possiamo fare accordi commerciali indipendenti con altri paesi, che saranno più vantaggiosi rispetto a quelli stipulati da Bruxelles con questi stessi paesi. (Ma inizialmente la Gran Bretagna deve perdere i vantaggi di accordi già fatti tra l’Ue e il Canada, il Giappone e altri. E perché credere che un paese singolo, benché importante, possa sottoscrivere accordi più vantaggiosi rispetto a quelli sottoscritti dall’associazione commerciale più grande nel mondo?)

5. La Brexit produrrà un crollo generale dell’Ue; non saremo “fuori” da niente. (Infatti la Brexit ha prodotto un’unione singolare tra gli altri paesi...)

6. Donald Trump ci concederà privilegi commerciali, perché noi abbiamo rapporti molto particolari con gli Stati Uniti; e anche Trump vuole il crollo dell’Unione europea. (Non si vedono eccezioni per la Gran Bretagna nella politica protezionista di Trump. E il presidente Usa non controlla la politica commerciale esterna agli Stati Uniti.)

7. Nel mondo dell’Internet, non servono rapporti particolari con i paesi vicini. Il Regno Unito ha già chiesto di diventare un membro del blocco commerciale Pacifico, benché non siamo un paese che si affaccia sul Pacifico. La geografia non esiste più. (Tutti possono avere rapporti con tutti sull’Internet. Non serve interrompere quelli con i vicini per crearne di nuovi. E la vicinanza continua a produrre vantaggi. Tutti i paesi del mondo hanno rapporti commerciali più importanti con i vicini che con altri.)

8. Noi siamo un paese grandissimo. Nel passato avevamo un impero, e molti tra i paesi membri dell’impero (diventato Commonwealth) vogliono tornare a rapporti speciali con noi. Inoltre l’“Anglosfera” è più ampia e possiamo costruire una Zona economica con i paesi anglofoni. Insieme con i nostri amici particolari, gli americani, noi britannici siamo un popolo importantissimo. Nascosti nell’Ue siamo diventati invisibili. Fuori dell’Ue la grandezza britannica torna al mondo, che la sta aspettando. (Finalmente arriviamo al sogno profondo e romantico della Brexit. Questo richiede più che un commento...).

La nostalgia per l’impero passato non è molto condivisa dalla destra politica britannica in generale. Certo non è condivisa dalla gran parte degli imprenditori, delle banche e delle altre compagnie e dominanti nell’economia. Non è condivisa dalla maggioranza dei membri conservatori del Parlamento. Ma si annida in parti strategicamente importantissime. In primo luogo c’è la stampa della destra inglese, particolarmente i due giornali vicinissimi al partito conservatore: Daily Mail e Daily Telegraph . Due giornali molto nazionalisti e da sempre ostili verso l’Unione europea e altre istituzioni internazionali che minaccerebbero la sovranità britannica. In secondo luogo ci sono gli iscritti del partito, che sono pochissimi, forse solo 70 mila in tutto il paese. Sono principalmente vecchi e vivono nelle piccole città fuori dall’economia moderna. Ma possono controllare il destino dei membri del parlamento.

Anche insieme, questi due gruppi non possono dare vita a una maggioranza popolare. Ma negli scorsi decenni la miscela tossica della globalizzazione economica, l’immigrazione di massa, e il terrorismo islamico, che sta inquinando la politica di molte parti del mondo, ha investito con forza la Gran Bretagna. Il contesto politico era pronto per una campagna xenofoba e il referendum sull’Unione europea. La xenofobia ha rinforzato il romanticismo imperialista.

Quanto al partito laburista, è stato condizionato da un altro tipo di nostalgia. Benché la maggioranza degli iscritti al partito (e sono molti) e i suoi votanti siano fortemente europeisti, il vecchio gruppo intorno al leader Jeremy Corbyn è stato sempre ostile verso l’Unione europea, perché la vede come un ostacolo al progetto di una “economia fortezza” e socialista.

La coalizione pro-Brexit è dunque una miscela poco coerente tra isolazionisti della destra e della sinistra (con progetti molto diversi) e alcuni neoliberali, che cercano la “Singapore dell’Atlantico” iper-globalizzata. Ma non è insolita la coalizione britannica tra un regime economico globalizzato, portatore di disuguaglianza e mancanza di sicurezza, e una politica nazionalista. Una tale alleanza focalizza l’attenzione del popolo sui problemi causati da parte di “vari tipi di stranieri” e non su quelli portati dal neoliberismo. Questa diventa la “nuova normalità” della prima parte del 21. secolo. Ed è presente, secondo diversi modelli, negli Stati Uniti, in Russia, in India, in Giappone, e in vari paesi europei, particolarmente nella parte centro-oriente. Ciò che distingue il Regno Unito è che, nella ricerca di un passato perduto, stiamo rompendo i nostri legami con il presente e il futuro.