Lo scrittore Catozzella: "Chi odia i migranti è perché ci ritrova se stesso"
Nei suoi libri ci ha consegnato una visione diretta delle tragedie delle migrazioni. All'Espresso spiega perché nel nostro Paese sia così difficile l'accettazione e quali politiche potrebbero essere messe in campo per affrontare il fenomeno. Senza risparmiare critiche a tutte le forze in Parlamento, da Minniti a Salvini passando per il M5s
Giuseppe Catozzella, scrittore, 41 anni, ha creato un caso editoriale nel 2016 con Non dirmi che hai paura, romanzo in cui raccontava la storia vera di un'atleta somala che muore in mare cercando di raggiungere e partecipare alle Olimpiadi di Londra. Un'opera che gli ha valso non solo sperticati elogi da parte della critica, ma anche la nomina di ambasciatore Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati. Il nuovo libro che sta presentando in giro per l'Italia, E tu splendi, cerca ora di affrontare il tema delle migrazioni dal punto di vista dell'accoglienza e dell'integrazione. Viste proprio in un luogo dove è più difficile realizzarle; un piccolo paese della Basilicata, dove una famiglia di immigrati cerca di sconfiggere la diffidenza della popolazione locale grazie all'aiuto di un giovane ragazzo italiano che la prende in simpatia. Anche stavolta è arrivato il successo: E tu splendi è in classifica da otto settimane ed è in ristampa per la quarta volta. Proviamo insieme a lui a capire come affrontare, sia a livello italiano sia europeo, questa tematica di attualità così stringente.
Ha scritto che l’Italia oggi è “un Paese dalla mentalità asfittica”. Che cosa intende? E siamo sempre stati così o lo siamo diventati? E se lo siamo diventati, quando è avvenuto, come, perché? Lo siamo sempre stati, fin dall'Unità, credo. Siamo un paese contadino e segnato dalla miseria che non ha conosciuto la "rivoluzione" borghese o liberale, al contrario dei grandi Stati nazionali europei, cioè non è mai stato in grado di costruirsi una identità culturale e collettiva, e un disegno del futuro slegato dalla materia, dalla terra, dal bisogno. Abbiamo conosciuto un benessere economico per pochi decenni, dalla fine del secondo dopoguerra fino a una decina di anni fa. Ma in mancanza di strutture culturali diffuse, di un senso collettivo di nazione e partecipazione e di uno slancio culturale verso il futuro, non abbiamo potuto che interpretare e utilizzare quel breve benessere in chiave privata, familistica, materialistica. L'italiano ha imparato che il tertium non esiste, che la Giustizia non esiste, che per sopravvivere occorre "fottere" il prossimo e lo Stato, perché lo fanno tutti, Stato incluso. Che non vige la certezza della pena ma l'unica certezza che più gravi per la collettività saranno i reati e meno verranno puniti. Da questo non può che risultare un paese asfittico, senza aria, senza visione, senza speranza e, di fatto, senza futuro, visto che anche l'emigrazione non si è mai fermata e anzi è aumentata negli ultimi anni (ricordo infatti che lo scorso anno 180.000 ragazzi italiani hanno lasciato l'Italia per trovare un lavoro degno di loro). Domina una visione chiusa, gretta, aridamente materialistica, utilitaristica all'eccesso: la guerra di tutti contro tutti, dei poveri contro i poveri.
Oggi il “senso comune” in Italia non è certo aperto nei confronti dell’accoglienza e dei migranti. Non era così, fino a pochi anni fa. Di chi sono le maggiori responsabilità? Non era così forse finché a ricevere migranti o stranieri erano principalmente i Paesi che hanno conosciuto la rivoluzione degli Stati nazione, i Paesi ricchi quindi: Francia, Inghilterra, Germania, USA su tutti. Fino a pochissimi anni fa gli emigranti veri eravamo noi italiani, e come ricordavo prima stiamo tornando ad esserlo. In Australia siamo i "wog", in America i "wop", termini più che dispregiativi. Adesso che a ricevere stranieri siamo anche noi, non siamo preparati. Non siamo pronti culturalmente. E non lo siamo nemmeno economicamente. Non abbiamo una visione del futuro per noi, figurarsi per i nuovi arrivati.
Questo genera un sentimento presente e vivo nelle fasce meno avvantaggiate della popolazione, ovvero la grande maggioranza. Se questi sentimenti privati, intimi, di insicurezza e invasione vengono poi alimentati ad arte da chi detiene il megafono, ovvero politica e media, che usano slogan per atterrare spettatori o clic, allora accade che un sentimento di vergognoso rancore privato ottenga un riconoscimento pubblico, e questo è molto pericoloso. La vergogna privata facilmente si trasforma in appartenenza, in orgoglio. E da lì in diritti negati, in un nazionalismo negativo, privo di un vero disegno culturale costruttivo. E poi in odio. Odio sociale, collettivo.
Questo “senso comune” impaurito e quindi xenofobo si può ribaltare secondo lei? E come? Quali sono le caratteristiche e i perimetri di questa battaglia culturale? È difficilissimo. Se la battaglia è culturale, come lo è, allora è già quasi persa in partenza. Stiamo parlando di un Paese, il nostro, dove pochissimi leggono (1 su 10), e dove molti, moltissimi sono ancora analfabeti o analfabeti funzionali. Le battaglie culturali da noi non funzionano, perché il senso comune italiano è pre-culturale o addirittura anti-culturale. Questo non significa che bisogna arrendersi, certo. Significa solo che è molto difficile. Occorre più di tutto una grande politica indirizzata alla Scuola. Lì si gioca ogni cosa. Copiamo la Francia se non abbiamo idee. Ma quei soldi che ci sono vanno messi nella Scuola e nei libri.
Il suo ultimo romanzo, E tu splendi, affronta il tema della difficile integrazione di un gruppo di africani in Italia, più precisamente in un piccolo paese del Sud. Quali sono oggi gli ostacoli culturali principali per l’integrazione? E quali? Lo straniero, ad un popolo come noi italiani, attiva una reazione molto intima e che vogliamo rimuovere: un senso di vergogna. Vergogna perché, data la nostra storia rurale di miseria e di immigrazione, lo straniero ci porta necessariamente a riconoscerci in lui. Di fronte allo straniero penso: questo sono io. Perché se non sono migrati i nostri genitori, i nostri nonni o i nostri bisnonni, magari siamo migrati noi, o i nostri figli. Tutto ciò, unito ad un presente di povertà, genera quel senso di odio collettivo di cui parlavo anche prima. Tutto questo impedisce una risposta razionale al più grande fenomeno del nostro tempo, che è quello delle migrazioni. Che pure conosciamo molto bene perché ha visto e vede protagonisti gli italiani per primi.
Cosa ne pensa del caso del sindaco di Riace, Domenico Lucano, e delle sue politiche di integrazione che hanno fatto parlare tutto il mondo? E' un modello che potrebbe essere applicato anche in altre parti d'Italia e d'Europa?
Secondo me sì. È naturale che ogni territorio, ogni comune ed ogni regione abbiano proprie caratteristiche geografiche, storiche, economiche e sociali. Ma io credo che quell'esempio sia non solo illuminato ma anche, in un certo senso, avanguardia.
Se uno smette di guardare soltanto nel breve raggio delle prossime elezioni politiche, o al breve o lungo destino dell'azienda privata in cui lavora, e inizia a guardare con una gittata più lunga a quello che sarà di necessità il "tessuto" del mondo dentro e dopo questa enorme era di spostamenti globali, quello che vede è giocoforza un genoma sempre più misto, un arricchimento della complessità culturale e sociale. I movimenti, le migrazioni, i Viaggi non si possono fermare. Non è mai stato possibile, e mai lo sarà. Chi dice il contrario è un truffatore oppure un cattivo osservatore della complessità della nostra epoca. Mantenendo fermo il dato della necessità delle migrazioni, occorre un disegno per strutturarle. Quello di Riace mi pare un disegno coraggioso e pionieristico: occorre studiarlo e capirne per bene le ragioni del successo, perché è un disegno non soltanto bello, ma necessario.
In uno dei suoi ultimi post sulla tua pagina Facebook commenta l'omicidio di Soumayla Sacko scrivendo che in E tu splendi non hai inventato nulla. Puoi spiegare questo parallelo tra realtà e fiction, anche a chi non ha ancora letto il tuo libro? In 'E tu splendi' racconto, attraverso la voce di un bambino alla storia di un gruppo di bambini, cosa succede in una piccola comunità (in un paesino di 50 case di pietra arroccato sulle montagne del profondo sud), un posto da cui tutti sono sempre emigrati, se proprio li' arriva una piccola famiglia di sette stranieri, compreso un bambino. La comunità si spacca in due, il prepotente proprietario terriero usa gli stranieri per abbassare le paghe a tutti, si genera una vera e propria guerra tra poveri e miserabili e quelli ancora più poveri. Fino a un punto di non ritorno. Questo è esattamente quello che è successo a Rosarno, dove per altro recentemente sono stato proprio a presentare questo romanzo in Comune, alla presenza delle istituzioni e di molti professori. Mi ci ha portato uno dei migliori librai d'Italia, un uomo coraggioso: Nunzio Belcaro della libreria Ubik di Catanzaro.
In questi giorni, la domanda che mi viene fatta più spesso, come del resto anche quando scrissi Non dirmi che hai paura e anche Il grande futuro, è: "Come hai fatto in un romanzo ad anticipare gli eventi?". Rispondo che è proprio questo il ruolo di uno scrittore nel 2018, se ancora ne ha uno, a mio modo di vedere: "sentire" lo Spirito del mondo, come si diceva nell'Ottocento, e trasformarlo in una storia.
Post sulla pagina di Giuseppe Catozzella del 3 giugno.
L’ultimo ministro degli interni del Pd, Marco Minniti, ha messo in pratica politiche molto dure verso i migranti, di fatto facendo rinchiudere migliaia di loro nei lager libici. Come giudica queste politiche? Un necessario adeguamento della sinistra alla "real politik" o un cedimento valoriale che snatura la sinistra stessa? Sono politiche sconsiderate, innanzitutto da un punto di vista umano. Di fronte al più grande fenomeno del nostro tempo, decine di milioni di persone che si spostano contemporaneamente in un anno (l'anno scorso si sono spostate 65 milioni di persone), non dobbiamo mai dimenticarci che nessuno lascia il proprio paese, i propri familiari, i propri amici, i propri amori se non è costretto, e che spostarsi verso condizioni di vita migliori è un diritto universale alla nascita, fino a prova contraria. Chi scappa dal proprio paese è innanzitutto un uomo, un essere umano, che ha diritto alla vita. Non può essere punito perché cerca di migliorarla, sarebbe inumano. Ogni decisione e azione, politica e non, che non considera ognuna delle persone che si spostano (compresi i ragazzi e le ragazze che vanno a studiare o lavorare negli USA o nel Regno Unito) come esseri umani dotati di diritti universali alla nascita è inumana e aberrante. Quando la sinistra decide di fare la destra per guadagnare voti li perde drasticamente, e tutti, se continua. Ogni originale, anche il peggiore, è meglio di una copia, lo scrivono anche i ragazzini sui social. Come fanno i cosiddetti capi politici a non saperlo? Quanto ciechi devono essere per aver dimenticato la propria identità, il proprio passato e quindi il proprio futuro?
Infatti alle elezioni l’originale è stato preferito all’imitazione. E Matteo Salvini è oggi tra i leader più popolari del Paese. Cosa pensa di lui? Come spieghi la sua popolarità? Le fa paura la sua ascesa al Viminale? Con quali argomentazioni e con quali forme la sinistra può contrapporsi a lui? Salvini è un uomo nato con la tv (anche di Berlusconi), ed è un uomo molto ambizioso. E' un uomo disposto a vendere la propria dignità di pensiero per i voti. È personaggio da slogan, sa che la coerenza e la dignità ormai non portano nulla e la loro assenza viene perdonata dai risultati. Fa leva su un partito che è nato come protesta, perfetto per i tempi di oggi. Un partito che ha rubato molto, dimostrandosi il perfetto partito di Palazzo, ma per ricordarselo ci vorrebbe memoria collettiva, che è stata smagnetizzata in qualche hard disk esterno. Non credo però che lui, che a pochi giorni dall'insediamento al Viminale continua a spararle grosse per i suoi elettori, possa fare molti danni. In Italia il Palazzo vince sempre. Ti schiaccia. E se non lo fa il Palazzo italiano lo farà quello Europeo. Il fatto di non poter tradurre in realtà mere promesse elettorali, se da un lato è un bene, lo porterà però a una esasperazione di slogan, persino da ministro di governo: temo che l'odio crescerà ancora.
E cosa pensa dell’atteggiamento del M5s sui migranti? Al Parlamento europeo hanno spesso votato con la sinistra per l’accoglienza, però poi Di Maio ha attaccato i “taxi del mare” e ha firmato il contratto con la Lega che prevede espulsioni di massa...
Credo che occorra separare, per il M5S come per ogni partito, quello che si dice da quello che si fa. La politica non è il territorio dell'accordo tra il dire e il fare. Le persone dignitose (e per dignità intendo la sua base materiale: fare quello che si dice e dire quello che si fa) le troviamo casomai in altri settori. Però riguardo il M5s credo che, come su altri punti, anche su questo da un lato ha intelligentemente cercato mediazioni (soprattutto elettorali) alle opposte ideologie cristallizzate di destra e sinistra; dall'altro, bisognerà vedere come si incarnerà questa strategia elettorale da "terza via" in un governo con la Lega. Come dicevo prima, credo però alla fine che il Palazzo schiaccerà tutto, come ha sempre fatto. Da noi per battere il Leviatano ci vogliono ancora molte generazioni.
M5s e Lega hanno parlato molto del “business dell'immigrazione”. Lei ritiene che l'accoglienza in questo Paese venga gestita adeguatamente? Quali sono gli errori, quali i margini di miglioramento non solo per i migranti, ma anche per una maggiore accettazione da parte degli italiani? Io posso parlare di quello che ho visto con i miei occhi, occupandomi del più grande fenomeno dei nostri tempi ormai da più di 10 anni. E ho visto una grande quantità di organizzazioni, di strutture, una grande rete sul mare e a terra, che non dimentica che chi scappa dal proprio paese è innanzitutto un uomo che ha diritto alla vita. Tutta la campagna politica e mediatica volta a sdoganare un pensiero ostile nei confronti dei migranti e di chi si sposta per me è aberrante. Chi ha in mano il megafono vince. Ormai ci siamo abituati all'idea che dietro le migrazioni ci sia del marcio. E che quindi tutto vada gettato a mare, persone incluse. No. Non è così. Questo è malato. Nessuno può morire in mare così come in terra, se scappa da casa sua, o anche se decide di spostarsi per povertà. È stata anche inventata una categoria ridicola come quella dei "migranti economici", che non avrebbero diritto di spostarsi come chi invece scappa dalla guerra. E perché mai? Avete conosciuto le carestie dell'Africa orientale? Io sì, e posso assicurare che lì non ci puoi rimanere. E hai diritto a non morire, se sei forzato ad andartene. Poi, di certo ci saranno mele marce e persone o qualche organizzazione che non fa il proprio lavoro come dovrebbe: punire, rimuovere, agire in questi casi, allora.
Che cosa dovrebbe e potrebbe fare l’Europa? Cosa pensi del trattato di Dublino, che di fatto delega ai soli paesi affacciati sul mediterraneo tutta la questione? Va cambiato. Le migrazioni sono, come ho già più volte detto, il più grande fenomeno del nostro tempo. Per questo tutta l'Unione Europea deve farsene carico, è suo dovere costitutivo non lasciare tutto nelle mani di uno, due o tre paesi, quelli che hanno lo sbocco sul mare e i confini più permeabili. Come ho già più volte detto la responsabilità di queste decine di migliaia di morti dentro e fuori il mare Mediterraneo è dal mio punto di vista tutto a carico di chi non vuole facilitare questi Viaggi epici, e quindi anche a carico dell'Unione Europea che ancora oggi nel 2018 non riesce a organizzare corridoi umanitari per lasciare viaggiare in tranquillità e raggiungere la propria destinazione queste persone. Si vuole lanciare il messaggio che è meglio non partire. Ma di fronte alla guerra, alle carestie e a una schiacciante povertà non c'è scelta. Più volte ho parlato con ragazzi che hanno fatto il viaggio e mi hanno detto che preferivano una morte possibile durante il viaggio a una morte certa in casa loro.
Si parla spesso, sia a destra sia nel Pd, di “aiutarli a casa loro”, in particolare con riferimento ai migranti economici. Cosa ne pensa? Gli investimenti nei Paesi interessati possono aiutare a far decollare le economie? La cooperazione internazionale può giocare veramente un ruolo? E quale? E comunque, questo può bastare o le migrazioni sono un fenomeno globale irreversibile? Prima di tutto questo, occorre smettere di alimentare le guerre nei loro paesi che li costringono a fuggire. L'Occidente è disposto a rinunciare a molti soldi per far cessare le guerre in Africa e Medio Oriente? Si prenda un caso recente, e quindi più comodo per la memoria: la Siria. Abbiamo forse ancora in mente gli aerei Usa che bombardano. Bene, in 7 anni quella guerra, che anche l'Occidente non ha mai smesso di alimentare, ha prodotto milioni di migranti. Vogliamo che non partano? Prima di pensare alle loro economie pensiamo a smettere di fare la guerra a casa loro.