«Il ministro del'Interno è un uomo prepotente. E poi questa arroganza e questa impreparazione, che si accoppia con quella del M5S. Insomma se lei mi chiedesse se comprerei un’auto usata da lui…». Intervista a tutto campo al grande giornalista

Che vuol sapere da me? Sono un vecchio ronzino di 82 anni, ho cominciato nel giornalismo nel 1960, a La Stampa, e credo di essere il recordman dei cambi di redazione: sono sempre stato un ramingo, un randagio, un Rom». Giampaolo Pansa, classe 1935, condirettore de L’Espresso dal 1991 al 2008, con il suo Bestiario, ci riceve nella sua casa, nella campagna senese, che ha eletto a buen retiro. Fuma una Merit dietro l’altra: alla fine, nelle quasi due ore di colloquio, saranno quattro. Adele Grisendi, sua compagna da molti anni, “la mia padrona”, va e viene.

Perché ha lasciato La Verità e Maurizio Belpietro, dopo tanti anni di collaborazione, al di là delle espressioni di circostanza che entrambi avete usato?
«Quando un direttore, in questo caso Belpietro, conclude un suo articolo di fondo - è vero che ne produce uno al giorno - scrivendo “Forza Salvini”, eh beh…».

Eh beh cosa?
«Non mi piace! Io non ho mai gridato “forza Salvini”, non ho mai gridato “forza” nei confronti del politico di turno, semmai ho strillato a me stesso “forza Giampaolo”, quando l’anno scorso ho perso mio figlio Alessandro e mi sembrava di non farcela più, davvero. E ce l’ho fatta, invece, grazie ad Adele».

Non ha digerito quel peana, insomma.
«Ma che fai? Scrivi forza Salvini? Ma vaffanculo! Io non ci sto in un giornale che vedo in preda a una deriva salviniana pazzesca. E non vale solo per quel giornale, intendiamoci».

Infatti, lei in un Bestiario dedicato proprio al ministro dell’Interno, lo scrive: di giorno in giorno, i quotidiani si stanno schierando con il nuovo potente.
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Quando Giampaolo Pansa inventò Dalemoni
13/1/2020
«Le leggo l’ultima parte della lettera personale che ho inviato a Belpietro: “non mi riconosco più nella linea de La Verità soprattutto nel sostegno a Matteo Salvini e in quelli che sembrano i suoi obiettivi di leadership”».

Quali intende?
«Ma lui vuol comandare! Vuol disfare tutto! È un autoritario. È anche un po’ un fascista, diciamolo».

Se lo dice lei, che dal “Sangue dei vinti” in poi è diventato il fustigatore dei partigiani e dell’antifascismo… Ma non le sembra un’espressione eccessiva?
«Salvini è muscolare, è un accentratore, ce ne sono esempi continui. È fascista nei modi, nelle cose. Ma scusi, come chiamarla questa sua convinzione che il resto della politica italiana sia immondizia, eddai. E poi la sua faccia non mi piace».

Siamo alla fisiognomica, Pansa…
«La metta come vuole, ma in quel volto, quelle espressioni, si legge la prepotenza: è un uomo prepotente. E poi questa arroganza e questa impreparazione, che si accoppia con quella del M5S. Insomma se lei mi chiedesse se comprerei un’auto usata da lui…».

La comprerebbe?
«Nooo! Perché non so cosa ci troverei dentro. Probabilmente quello che fa comodo a lui, non a me».

Eppure il leader della Lega pare avviato a una lunga carriera: lui scommette su trent’anni di potere.
«Io invece lo vedo incamminato lungo una strada che sarà disastrosa, per lui e per noi. Prenda questa vicenda dei soldi da restituire... ».

L’Espresso ne scrive da qualche mese ormai.
«Una “paccata” di milioni, secondo quanto stabilito dalla Cassazione. Salvini ha fatto numeri terribili, fino a chiedere l’intervento di Sergio Mattarella. Ma andiamo! Senza dimenticare che quei soldi sono danari del finanziamento pubblico, vengono dalle nostre tasche».

Il ministro che spara sulla Cassazione le ricorda Silvio Berlusconi, quando cominciò a lanciare invettive contro le Toghe rosse?
«Neppure il Cavaliere osò tanto. Salvini è pericoloso, perché è uno sbruffone, perché ha attitudini violente, perché è un accentratore, perché il potere gli piace troppo. Insomma, come facevo a restare a La Verità? Belpietro era venuto sin qui ad arruolarmi. Ma questa adesione totale, piena al salvinismo, non mi convince e non la tollero».

Lei di bulli, in politica, in quasi 60 anni di lavoro, ne ha incontrati e raccontati a iosa.
«L’ultimo è Matteo Renzi. Sono stato io il primo a dargli l’appellativo di bullo, se l’avessi registrato e ne avessi il copyright, oggi sarei ricco, talmente tanti sono quelli che l’hanno riutilizzato nei confronti dell’ex premier. Che ha fatto la fine di tutti i bulli».

E il primo chi è stato? Amintore Fanfani?
«Ma no, come Bettino Craxi, Ciriaco De Mita, Massimo D’Alema, neppure Fanfani era un bullo. Erano signori potenti e protervi, ovviamente ognuno a suo modo. Con Craxi, per esempio, c’era un buon rapporto, ma anche De Mita, alla fine, era uno alla mano...».

Perché Craxi?
«Craxi lo conoscevo che eravamo ancora studenti e lui aveva anche i capelli. Ai tempi dell’Unione goliardica italiana-Ugi. E poi, per anni, sono stato all’hotel Raphael, dove viveva lui, perché allora i giornali erano ricchi e potevano pagare l’albergo a un vicedirettore».

Una volta Craxi le fece scrivere una intervista da solo: domande e risposte.
«“Le tue risposte saranno certamente migliori delle mie”, mi disse. Ma non era un bullo. Lui e gli altri venivano da una storia lunga, da anni di politica. Gente che aveva mangiato tanto pane nero, duro e anche tanta merda. Personaggi che avevano una misura, che si rendevano conto d’avere di fronte un Paese difficile e che bisognava stare attenti ai propri passi. Un personaggio come D’Alema, per esempio, aveva il piacere di mostrarsi arrogante, ma lo era meno dei vari Salvini di oggi, che però sono adatti all’Italia e alla volgarità di questi tempi».

Che tempi sono? Abbastanza di recente lei ha scritto in un suo libro che c’è un brutto clima, che sembriamo esser tornati al 1922, all’avvento del fascismo.
«Se il clima generale non fosse così foriero di pessime novità, la gente, persino i giornali, non sentirebbero di doversi cercare un protettore. A me spiacerebbe solo che qualcuno, dopo la mia morte, se la prendesse con mia moglie Adele».

Troverebbe pane per i suoi denti, credo.
«Mah, non credo mai alle situazioni in cui c’è un Cavaliere bianco che ti difende dal Cavaliere nero. Il Cavaliere nero di oggi è Salvini. Se mi chiede se c’è e chi sia il Cavaliere bianco, non so risponderle».

Non mi ha parlato dell’alleato di Salvini, il Movimento 5 stelle.
«Ah, Luigi Di Maio e il suo pauperismo finto, istigato da Beppe Grillo, uno che pensa di estrarre a sorte i senatori, capisce? Prenda questo decreto “Dignità”: la parola stessa trasuda moralismo. La morale fatta per legge».

Molti anni fa lei, quando era vicedirettore di Repubblica, sollevò una marea di polemiche, specialmente a sinistra, parlando di “giornalisti dimezzati”, che si mettevano al servizio di una causa, per interesse o per militanza. Miriam Mafai le dette parzialmente ragione, ammettendo che con il Pci era stato così. Sta accadendo lo stesso con il governo gialloverde?
«Ognuno con la propria dignità faccia quel che vuole. Ognuno si dimezzi a piacimento. Mi sono dimesso da La Verità perché quel giornale si è dimezzato. Ma non è certo l’unico».

Il prototipo del giornalista militante, secondo alcuni, è Marco Travaglio.
«Posso dirle che Travaglio non lo leggo?».

Come non lo legge? Lei si sorbisce una dozzina di quotidiani ogni giorno.
«E c’è anche Il Fatto quotidiano, ci mancherebbe. Ma lui è davvero noioso, è troppo lungo».

In questi anni lei ha bombardato di critiche feroci i giornali per cui ha lavorato più di trent’anni, Repubblica e L’Espresso
«Vero, ma ho sempre avuto affetto per “Barbapapà” Eugenio Scalfari: lui mi ha portato a Repubblica, dove arrivai con Bernardo Valli dal Corriere. Andammo in via Solferino ad annunciarlo al direttore, Franco Di Bella, che aveva appena sostituito Piero Ottone e lo sapeva già: “Siete venuti a dimettervi insieme, che rompicoglioni”. E poi a L’Espresso ho vissuto gli anni giornalisticamente più belli, in tutto il mio girovagare: in Via Po, a Roma, in quella redazione. Claudio Rinaldi mi chiese di fare il suo condirettore, rivelandomi che gli avevano diagnosticato da poco la sclerosi multipla: “Ti rendi conto che fai una scommessa anche sulla mia salute”? Anni bellissimi. Ricordo quella volta che…».

Quella volta??
«Che nel ’92, in piena Tangentopoli, uscì la notizia del coinvolgimento dell’editore, Carlo De Benedetti, e della sua Olivetti in un’inchiesta. “E ora che si fa?”, chiesi a Rinaldi. Lui non ebbe dubbi: “Ora tu vai a Ivrea e intervisti l’Ingegnere”. E io: “Ma sei pazzo?”. Ci andai, ovviamente, e venne fuori una bella intervista. Ricordo Toni Pinna, e poi Antonio Ramenghi».

Il vicedirettore con cui lei ha lavorato per anni, scomparso di recente.
«Una sera, da poco arrivato a casa, mi sentii male: svenni. Adele chiamò il giornale, arrivarono Ramenghi e il giovanissimo Marco Damilano. Quando aprii gli occhi, sul letto, e vidi le loro facce, esclamai: “Oh cavolo, mi hanno già riportato al giornale”. Mi trasferirono in ospedale in ambulanza e Ramenghi, che era venuto insieme al fattorino del giornale con una Panda, volle accompagnare Adele, cedendole il posto davanti e accovacciandosi, lui, nel vano portapacchi, dietro la reticella. Giunsero al Pertini prima dell’ambulanza. Ramenghi uscì dalla bauliera e se ne andò solo dopo il mio arrivo. Un uomo generoso, fuori dal comune».

In quegli anni lei e gli altri avete condotto la Guerra di Segrate contro Berlusconi.
«Il Cavaliere voleva mangiarsi tutto. Era una questione di resistenza».

E oggi?
«Oggi contro i nuovi potenti non resiste quasi più nessuno. Se Mario Calabresi mette in mostra tutte le qualità che ha, farà la fortuna di Repubblica».

Come vede il Paese? Un suo recente libro si intitola “Italiaccia senza pace” (Rizzoli).
«Mi preoccupano due cose. Abbiamo un problema gigantesco: l’immigrazione dall’Africa. Quanti sono quelli che vogliono venire qua? Seicentomila, 800mila, un milione: le cifre ballano. Come argineremo questo fenomeno? Come gli daremo una regola pacifica? Un rebus enorme da sciogliere».

La seconda cosa?
«La nostra economia non mi pare salda, né in ripresa come si sforzano di vederla. Le università non aprono più un futuro ai nostri giovani».

Pessimista.
«Questo è un Paese del cazzo, mi scusi l’espressione».

Scusato.
«E aggiungo che sono contento di avere 82 anni e non 28, temo che andremo a fondo, non accorgendocene o, quando lo capiremo, sarà troppo tardi. È un’Italia dove i farabutti hanno sempre di più la meglio sugli onesti. Cose troppo nere? Forse, ma mi auguro che non sia venuto fin quaggiù per intervistare il saggio della montagna».