Un raro autoritratto confidenziale del nuovo segretario della Cgil. In un'intervista rilasciata all'Espresso quattro anni fa

Questa intervista di Stefania Rossini a Maurizio Landini è stata pubblicata sull'Espresso quattro anni fa. Ne riproponiamo ampi stralci - quelli più personali e meno legati all’attualità politica - in occasione della nomina di Landini alla sgreteria della Cgil, il maggiore sindacato italiano.

Maurizio Landini è esattamente come te lo aspetti. Sicuro delle proprie idee, preparato a ogni tipo di domanda, concreto nelle risposte, incarnato nel ruolo di sindacalista puro. Rispetto alla ruvidezza della sua immagine televisiva, resa familiare dalla partecipazione a molti talk-show, rivela però qualche morbidezza e una inconsueta disponibilità a toccare anche corde sentimentali

Landini, che cosa significa per lei, oggi, essere di sinistra?
«Stare dalla parte del lavoro, credere nella giustizia sociale e applicare pienamente i principi della nostra Costituzione, anzi sventolarli in Europa. I vecchi riferimenti sono saltati. Come fai a parlare di uguaglianza delle opportunità a un ragazzo che non trova lavoro e che vede il suo amico trovarlo perché conosce qualcuno? Come fai a dire “Proletari di tutto il mondo unitevi” a un operaio italiano e a uno polacco messi in competizione dalla Fiat? Tutto va ripensato».

Comunque è stato a lungo comunista.
«Sono stato iscritto al Pci, al Pds, ai Ds mai al Pd. Però il mio impegno è stato sempre nel sindacato, anche perché il disincanto per il partito era cominciato molto prima, quando nella cooperativa di comunisti che mi dava lavoro mi facevano fare compiti in contraddizione con i principi dichiarati. Io lavoro da quando avevo 14 anni e ho visto molte cose di questo genere».

È stato duro cominciare a lavorare così presto?
«Abbastanza, ma a un certo punto mio padre non è più riuscito a mantenere la famiglia e mi ha mandato a fare il saldatore. Qualche volta mi rammarico di non aver avuto un’educazione scolastica, ma poi ricordo quei tanti operai, impiegati e delegati che mi hanno dato una formazione sindacale e umana. Uno di loro un giorno mi disse: “Se tu fai il delegato di un’azienda, devi saperne più del presidente, sennò non conti nulla”. Da allora non mi avvicino a una fabbrica se non ne ho studiato a fondo il bilancio. E penso che mio padre abbia fatto, allora, la scelta giusta».

Lei ormai è molto noto, ma del suo privato non si sa quasi nulla. Come mai?
«Perché sono un sindacalista e questo dovrebbe bastare. Ma, se ci tiene, le racconto che la mia era una famiglia numerosa e unita. Ho quattro fratelli, il più vecchio è stato anche lui delegato sindacale, il più giovane è un precario. In mezzo ci sono due gemelle, una gestisce un bar e l’altra lavora in un supermercato. Mio padre, che era per me un grande riferimento, è morto pochi mesi fa».

Ci parli di lui.
«Aveva fatto la resistenza in sella a un cavallo bianco. Almeno questa era l’immagine che ne avevo da bambino quando ci raccontava la sua storia di staffetta partigiana nelle montagne emiliane. Era allora, ed è rimasto per tutta la vita, un comunista».

Un padre dalla parte dei giusti su un cavallo bianco. Questa sì che è un’educazione romantica alla politica.
«Forse, ma c’era anche l’esempio del suo lavoro duro e dignitoso di stradino. Quando fu assunto dalla Provincia e divenne responsabile di un tratto di strada, cominciammo a scendere dal monte dove ero nato, arrivando prima in collina e poi giù fino a valle. Fu la nostra emancipazione».

Che infanzia ha avuto tra quei monti e la valle?
«Quella classica dell’Emilia dell’epoca, divisa tra l’oratorio e la sezione del Pci. Due modi di intrattenerci, in fondo non troppo distanti. Quando facevo catechismo, il mio insegnante era un prete operaio che lavorava in fabbrica. Non sono un credente ma da lui e da mia madre, cattolica, mi è rimasta la spinta a stare sempre dalla parte dei più deboli».

Poi c’è una moglie che nessuno ha mai visto.
«E che nessuno, fuori da Reggio, vedrà. Non mi chieda il suo nome perché non glielo direi. Le racconto soltanto che l’ho conosciuta che avevo 19 anni, che stiamo insieme da quasi trenta e che è un’impiegata comunale».

Lei quanto guadagna al mese?
«2.350 euro, più di un operaio del quinto livello. E mi bastano».

Ci dica un lusso che si permette.
«Un lusso?»

Un acquisto, una vacanza...
«Ah, le vacanze. Per molti anni sono andato in montagna, a Monte Piano, dove il mio bisnonno faceva il carbone. Ci sono solo quattro case, che appartengono a mia madre e ai suoi fratelli. Lei ci riunisce tutti lì d’estate. Però quest’anno, con mia moglie, ci siamo concessi il mare»

Dove?
«A Gabicce, sull'Adriatico. Lo conosce?».