Dopo lo sgombero della baraccopoli di San Ferdinando non esiste nessuna soluzione per i migranti rimasti nelle tende. E i decreti di Matteo Salvini hanno tolto quei pochi diritti rimasti
Arrivano quasi sempre di notte. Da Saluzzo, Foggia, o dai campi siciliani. Viaggiano in piccoli gruppi, o da soli, trascinandosi dietro vecchie valigie in cui conservano i loro pochi averi. I soldi no, quelli sono sempre addosso. Destinazione, Rosarno, tappa autunnale di una stagione che per i braccianti migranti non termina mai. Nella Piana, la raccolta delle olive e degli agrumi è alle porte. E come ogni anno, un esercito silenzioso si presenta puntuale per avviare a forza di braccia il motore dell’economia agricola della zona. Un esercito di fantasmi, oggi in larga parte clandestinizzato per decreto. Fino a qualche mese fa, la maggior parte di loro trovava riparo nella baraccopoli, il ghetto informale nascosto nella zona industriale di San Ferdinando, che per anni ha supplito alla mancanza di alloggi. Nata come “temporanea” tendopoli istituzionale, negli anni è diventata un labirinto di baracche. Ad ogni stagione di raccolta, “un’emergenza” per istituzioni incapaci di proporre soluzioni. Senza acqua, né servizi sono arrivati a viverci in 4mila. E non ci abitavano meno di mille braccianti il 6 marzo scorso, quando oltre 900 agenti delle forze dell’ordine si sono presentati a protezione delle ruspe che, per ordine del Viminale di Matteo Salvini, hanno buttato giù il campo.
Mentre le baracche cadevano come castelli di carta, i più sono andati via. A chi è rimasto, Viminale, Prefettura e istituzioni locali hanno offerto tanti proclami, qualche promessa di immediata bonifica dell’area, alloggi e solo “temporaneamente” nuove tende. Sono passati 7 mesi e sotto un sudario di erba, le macerie ci sono ancora. Percolato, ceneri e brandelli delle lastre di eternit che rivestivano le baracche – avvertono gli ambientalisti - stanno contaminando l’area. Ma dal ministero, i 569 mila euro necessari per rimozione delle macerie e bonifica dell’area non sono arrivati mai. Al pari degli alloggi. Le tende blu ministeriali, invece sono ancora lì.
Presidiata notte e giorno dalle forze dell’ordine, la tendopoli è in mano al Comune di San Ferdinando, che ogni sei mesi ne affida (in via diretta) la gestione ad una cooperativa, incaricata di vigilare su ingressi e assenze. Progetti a lungo termine per gli ospiti, nessuno. Il cerino è rimasto in mano al sindaco Andrea Tripodi, che adesso tuona contro lo sgombero e sulla stampa locale parla di «campagna mediatica di Matteo Salvini che non è servita ai migranti». Ma per l’ennesimo anno, nessuno sembra avere in mente una soluzione. «Io sono fra i fortunati, almeno sono riuscito ad entrare in tendopoli e per adesso un posto per dormire ce l’ho» dice Janko. Ventidue anni, un passato in Gambia e mesi di Libia di cui non ha voglia di parlare, è in Italia da quando ne aveva 16. È finito a lavorare nei campi. «È dura ma ci si abitua».
A schiena curva ha raccolto pomodori in Sicilia, ortaggi in Calabria, poi è finito a Foggia. Lì aveva un contratto di lavoro regolare, era riuscito a mettere via qualche risparmio e aveva la concreta possibilità di convertire la protezione umanitaria in permesso di lavoro. «Poi è successo il disastro. Stavamo cucinando in tenda, ma l’olio era troppo caldo, la pentola si è rovesciata e in pochi minuti tutto era in fiamme. Abbiamo perso tutto». Vestiti, soldi, ricordi, documenti. «Ho fatto subito la denuncia, ma non è bastato. Da Foggia mi hanno mandato a Palermo, da lì in Calabria, ma continuano a rimpallarmi fra i vari uffici». Janko è finito in un circolo vizioso e a distanza di un anno è ancora lì che si dibatte.
La sua protezione umanitaria era in scadenza, dunque non gli hanno rilasciato un duplicato. Aveva tutte le carte in regola per chiederne il rinnovo, ma nell’Italia del decreto Salvini, per prassi amministrativa è necessario attestare una residenza, dunque essere iscritti all’anagrafe. E per essere iscritti all’anagrafe è necessario esibire quel permesso che solo con una residenza potrebbe avere. «Io sto in tendopoli, sulla mia tenda c’è scritto ministero dell’Interno, ho un certificato che dice che vivo lì, ma in commissariato mi dicono che non basta». Nel frattempo, la sua protezione è scaduta, il contratto è sfumato e lui è un fantasma. Ad aiutarlo ci stanno provando Usb, Cosmi e Nuvola Rossa che insieme gestiscono uno sportello a San Ferdinando. Ma Janko sa che nella migliore delle ipotesi la possibilità di stabilizzazione è sfumata per sempre. La protezione umanitaria non esiste più e quella “speciale” con cui è stata sostituita non può essere convertita in permesso di lavoro e va rinnovata ogni anno. Sempre che il rinnovo venga concesso.
«Sono in molti ad inciampare negli stessi gorghi burocratici– spiega l’avvocato Francesco Penna, che supporta l’Usb nelle battaglie legali. L’intero sistema sembra un imbuto, con l’irregolarità come unico sbocco». E ci finiscono in molti, a partire dalle migliaia di braccianti che affollano i casolari diroccati, baracche costruite nel nulla, container o i cosiddetti insediamenti informali. I più grandi sono Testa dell’Acqua, nei pressi di Gioia Tauro, e Contrada Russo, a Taurianova.
Molti dei residenti sono richiedenti asilo usciti dal circuito Sprar e con il decreto Salvini non hanno diritto all’iscrizione all’anagrafe. «Questo – spiegano dall’Usb - significa niente tessera sanitaria e carta d’identità. Quindi nessuna possibilità di avere un contratto di locazione, di impiego o persino un conto corrente». Risultato, per casa e lavoro sono obbligati ad arrangiarsi. I pochi che riescono a trovare un impiego regolare devono necessariamente appoggiarsi a connazionali con un conto corrente su cui dirottare i pagamenti. E il servizio costa circa il 10-20% dell’importo accreditato. Caporali telematici che si aggiungono a quelli che già presidiano gli svincoli.
È lì che all’alba, da anni, ogni mattina apre il mercato delle braccia. E i nuovi schiavi rischiano di essere sempre di più perché ad ingrossarne i ranghi ci sono tutti gli orfani della protezione umanitaria. Come Ibrahim. Trentun anni, ivoriano, in Italia dal 2015. Assunto in un piccolo negozio di ferramenta della provincia di Reggio Calabria, in breve è diventato fondamentale per la coppia di titolari. Cinquantacinque anni lui, un po’ meno lei, storicamente di centrodestra, persino sedotti dalla retorica di Salvini, di fronte a quel ragazzo e al suo impegno si sono dovuti ricredere. Progettavano di regolarizzarlo: l’età avanza, il lavoro in ferramenta è pesante ed è meglio assicurarsi una persona di fiducia.
Ma il permesso umanitario di Ibrahim è scaduto prima che il contratto venisse formalizzato e alla richiesta di rinnovo, la commissione territoriale ha risposto un secco no. Lavoro regolare, una casa in affitto, un discreto livello di conoscenza di lingua italiana, una rete ormai solida di rapporti non solo con connazionali, non sono bastati. Per la commissione la situazione in Costa d’Avorio non è sufficientemente tragica da motivarne la permanenza in Italia. Fino a qualche mese fa non era così. La stessa commissione, pur non riconoscendo la protezione internazionale a Seykou, omosessuale e per questo perseguitato in Gambia, lo aveva concesso «in ragione dell’inserimento lavorativo e della conoscenza della lingua italiana». Criteri che dopo il decreto Salvini non valgono più. Il titolare della ferramenta si dispera. È andato in commissariato, in prefettura, in questura. Non vuole rinunciare a quell’apprendista. Ma tutti allargano le braccia. Impiccati alla volubilità delle commissioni, precari per decreto: in Italia cresce un esercito di prigionieri per legge, candidati alla clandestinità.