Abolire i decreti sicurezza: una battaglia civile e culturale
Messo alle spalle Salvini, serve una politica fondata sul protagonismo della società. Capace di interessarsi davvero agli invisibili
Tè e biscotti, stendini per i panni, donne velate, bambini di ogni colore. All’ingresso, un cartello: «C’è la sbarra dietro il cancello, chi esce dovrà chiamare un parente o un amico per farsi aprire a mezzanotte». Superato il primo blocco, un recinto carico di reti da materasso, poltrone di pelle, travi di legno. All’ascensore fermo al piano, un altro cartello che segnala il veleno per i topi e un avviso: «Care mamme e papà, bisogna pulire i sottoscala e il posto dei passeggini dei vostri bambini per una questione igienica e di buona convivenza, altrimenti i passeggini verranno sbattuti fuori». Nel sotterraneo dove si fanno le assemblee, c’è un murale di Che Guevara con l’aureola che lo fa sembrare un Cristo bizantino.
La prima sera di ottobre con Fabrizio Barca, una vita da tecnico in Banca d’Italia e al ministero di via XX Settembre, poi ministro della Coesione sociale nel governo di Mario Monti, oggi animatore del Forum Disuguaglianze Diversità, nelle palazzine occupate di viale del Caravaggio 107, dove abitano più di 380 persone, era la sede dell’assessorato alla Casa della regione Lazio, oggi ospita la più grande occupazione di Roma, probabilmente d’Italia e dunque forse d’Europa.
Va avanti dal 2013, in una condizione di illegalità permanente che per molti è diventata l’unica possibilità di un’esistenza normale, dignità, vita. In tanti sono al Caravaggio fin dall’inizio, c’è da mesi l’attesa che l’ordine di sgombero venga eseguito, com’è avvenuto in estate in un vecchio istituto occupato nel quartiere Primavalle, all’epoca c’era ancora Matteo Salvini al Viminale.
Le inquietudini non sono finite tra gli abitanti della città degli invisibili, il condominio che non potrebbe esistere, la stiva dei clandestini che viaggia a pochi chilometri dal centro di Roma. «Lottiamo per avere un tetto sulla testa», dice Anna. «Le guerre contro i poveri non riguardano solo la stagione politica appena conclusa, sarebbe un errore semplificare tutto attorno alla figura di Salvini. Si sono spaventati dello squilibrio creato dai populisti, ma gestire una situazione diversa non significa cambiare», spiega Luca Fagiano dei Movimenti per l’abitare.
Gli inquilini in gran parte sono in possesso della residenza fittizia concessa ai senza fissa dimora dal Comune di Roma e da altri comuni, via Modesta Valenti, come si chiamava una clochard morta quasi quarant’anni fa alla stazione Termini senza identificazione.
È il pezzo di carta che permette l’assistenza sanitaria o la partecipazione a un concorso, in molti non hanno neppure questa, sono sconosciuti per lo Stato e per l’amministrazione comunale, sono fantasmi. In tanti sono migranti, silenziosi e attenti. Si fanno i turni di pulizia o di sorveglianza, sembra una scena del film di Ettore Scola “C’eravamo tanto amati”, l’accampamento notturno dei genitori davanti a una scuola per iscrivere i figli. Gestione collettiva, comunitaria. Resistenza significa fare una vita normale e aspettare.
La casa per tutti è uno dei 169 target indicati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, il 4 ottobre è stato presentato il rapporto che fotografa la situazione in Italia dall’Asvis, l’alleanza presieduta da Enrico Giovannini.
Sono le voci delle viscere, del basso della società, il lato fragile del Paese, anche se questa definizione viene rifiutata dagli occupanti del Caravaggio. Nelle stesse ore, in superficie, un ex vice-ministro dell’Economia, Stefano Fassina, viene ferito mentre partecipa a una manifestazione per il lavoro durante una carica della polizia, si dimette l’intero consiglio di amministrazione dell’Ama, l’agenzia che gestisce i rifiuti della capitale, con una lettera durissima nei confronti della sindaca Virginia Raggi, ripercorrendo le tappe di una vicenda anticipata dall’Espresso nel mese di aprile. Qualche chilometro più in là, a Palazzo Chigi, viene approvata la nota di aggiornamento al documento di programmazione economica che dà i numeri e le indicazioni per la legge di Bilancio in arrivo. Per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte farà volare il Paese, lui infatti giura di essere qui per riformare l’Italia, per meno non si sarebbe mosso dal suo studio legale, per il ministro Peppe Provenzano è la più a sinistra degli ultimi anni. Nella palazzina occupata, però, ne dubitano.
Una situazione estrema, si dirà. Il giorno dopo l’assemblea del Caravaggio mi sono ritrovato ad ascoltare i sindaci arrivati a Roma per il festival delle città: il milanese Beppe Sala, e poi l’ex grillino Federico Pizzarotti di Parma, Carlo Salvemini di Lecce, Rinaldo Melucci di Taranto, fino al sindaco della piccola Acri in provincia di Cosenza Pino Capalbo. E il dubbio è ritornato, in tutt’altra sede. «Quando si fa un governo non veniamo ascoltati, quando si fa una manovra economica neppure, ogni volta che viene pubblicato un Def incrociamo le dita e diciamo: speriamo bene!», ha raccontato Sala. «Noi che abbiamo la responsabilità di fronte ai cittadini non possiamo accontentarci di giocare in difesa, dobbiamo essere coinvolti nelle decisioni».
Politica di prossimità, la chiama Salvemini, ribellandosi all’idea di convivere con i servizi che non ci sono, i fondi Ue che non vengono spesi. Non è la riproposizione del partito dei sindaci modello anni Novanta e Duemila, che partiva dalle città per andare alla conquista del Palazzo nazionale. Nel frattempo, il divario tra le due dimensioni si è allargato, fino a far esclamare al sindaco di Taranto Melucci che sono le città «la dimensione politica del futuro». In sala, però, si intuiva che negli ultimi anni il passato è tornato. Nell’Agenda 2030 dell’Onu, per esempio, il quinto obiettivo si propone di eliminare la differenza di genere, ma nella seconda giornata del dibattito le donne con la fascia tricolore erano due su 18 e le intervenute sei su 47 relatori. E il dubbio si è allargato.
Il salvinismo, più di ogni altra cosa, come tutti i sovranismi (pensate a Boris Johnson), è mortificazione del pluralismo e delle autonomie. La sorda contrapposizione tra l’ex ministro dell’Interno e i presidenti delle regioni del Nord, tutti leghisti (più l’emiliano Stefano Bonaccini del Pd), che chiedono allo Stato l’autonomia differenziata, non è soltanto uno scontro correntizio dentro il partito che fu della Padania. La politica di Salvini è stata centralismo, occupazione, richiesta di delega, soluzione di tutti i problemi affidata o all’uomo forte al comando o al singolo cittadino, come nel caso della legge sulla legittima difesa. Anche i decreti sicurezza, di cui parlano Aboubakar Soumahoro e Stefano Allievi sull'Espresso, erano il prodotto di questa concezione. Il blocco delle navi delle Ong deciso da Roma, da una stanza del Viminale (peraltro disabitata dal titolare dell’epoca), così come lo smantellamento della rete Sprar, gli istituti di seconda accoglienza attivati dagli enti locali in collaborazione con il volontariato e il terzo settore, erano due facce della stessa medaglia. Mortificare le diversità, appiattire la società in un’unica dimensione securitaria.
Finito Salvini, almeno per ora, dovrebbe riemergere un’altra idea dello Stato e della politica. Fondata sul pluralismo, il rispetto delle diversità, il protagonismo delle città e della società civile. Dovrebbe essere questo, ben più del no all’aumento dell’Iva, il collante che tiene unita la nuova maggioranza giallorossa. Il Movimento 5 Stelle è nato esattamente dieci anni fa, il 4 ottobre 2009 giorno di San Francesco d’Assisi, con l’icona di Beppe Grillo e da un’idea di Gianroberto Casaleggio, dare voce alla rabbia dei cittadini comuni contro una politica che si era rinchiusa nei suoi quartieri, blindata e sorda rispetto alle proteste e alle frustrazioni degli italiani normali.
Oggi M5S è il partito del Palazzo, il decennale della nascita se l’è scordato. Forse sarà lo stesso Grillo a riprendere la strada, ma intanto i suoi eredi tacciono, per eccesso di furbizia o di imbarazzo. Ma anche il Partito democratico, nato ufficialmente due anni prima, il 14 ottobre 2007, doveva servire nelle intenzioni a raggiungere lo stesso risultato: un grande partito nazionale pensato come uno strumento di partecipazione, non soltanto il giorno dei gazebo per le primarie.
Chi avesse il coraggio di riprendere quei progetti ambiziosi, nei rispettivi campi, avrebbe di fronte a sé le praterie politiche e elettorali. Invece, il segno più evidente di questa stagione politica è l’assenza di uno spazio, quello intermedio che c’è tra le sottili manovre delle leadership di partito e di corrente e il muoversi della società, unito alla ricerca e alla richiesta di spazi.
Matteo Renzi è alla ricerca di spazi, avanza a strappi e forzature, si colloca nel centro del sistema politico e promette colpi di scena e capovolgimenti di fronte, soprattutto ai danni del suo vecchio partito, il Pd. Per altri soggetti, più importante, è l’assenza di uno spazio. Che è un guaio, ma anche un’opportunità.
Cercano uno spazio politico i sindaci, schiacciati dalle alchimie della politica nazionale. Cercano uno spazio i movimenti della società civile, non più minoritari. L’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile di Enrico Giovannini e il Forum Disuguaglianze Diversità coordinato da Fabrizio Barca sono network che mettono in contatto associazioni nazionali e locali su progetti concreti, sono idealisti e pragmatici, sostituiscono sui territori e nel dibattito politico nazionale i partiti in disarmo organizzativo, culturale, sociale. Sono, da questo punto di vista, i nuovi partiti che uniscono i puntini, anziché dividerli, come faceva il ministro dei decreti sicurezza.
Per questo, abolirli non significa compiere un procedimento legislativo, ma prendere una posizione civile e culturale. Per non continuare con una politica che vola ma non tocca le macerie sociali, il desiderio di tetto, i fantasmi che abitano il paesaggio italiano