Dopo le condanne in appello, il caso del "cecato" arriva in Cassazione. Con il suo bagaglio di minacce, collusioni e intimidazioni ai testimoni. Ecco un retroscena inquietante

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La forza mafiosa di Massimo Carminati fino al giorno del suo arresto era nota a Roma da imprenditori, politici, commercianti, professionisti e criminali di ogni specie e clan. E ognuno di loro conosceva il metodo e l’operato del “cecato” e dei suoi gregari di cui era risaputo anche il sistema illecito di arricchimento. Tutto ciò verrà discusso davanti alla Cassazione il 16 e 17 ottobre, quando i giudici saranno chiamati a decidere se questa di Carminati è associazione mafiosa come l’ha definita la Corte d’appello di Roma. Molti interessi economici e criminali dipendono da ciò che verrà deciso dagli “ermellini”.

Nonostante ciò che è emerso dal processo - con filmati e intercettazioni audio che dimostrano la prevaricazione, le minacce, le intimidazioni, le collusioni con pubblici funzionari e politici, e la paura delle vittime, tanto da farle ritrattare davanti ai giudici perché hanno ancora oggi timore degli imputati - si fa ancora fatica a parlare pubblicamente a Roma dell’esistenza di questa mafia autoctona.

Il senso di tutto ciò è dato da quello che ha spiegato ai carabinieri il trafficante internazionale di cocaina Roberto Grilli, che prima ha collaborato con la giustizia, accusando Carminati e i suoi complici, ma poi - quando è stato chiamato a deporre in aula davanti a tutti gli imputati - ha avuto paura. Lamentando il fatto di non essere stato protetto, Grilli ha affermato che non sarebbe andato a confermare le accuse perché altrimenti sarebbe stato ucciso. «Ha paura di Carminati?, chiedeva l’ufficiale dell’Arma; e il trafficante non sapendo di essere registrato rispondeva: «Di Carminati posso aver paura soprattutto se ho dichiarazioni che lo affossano». E all’investigatore ribadiva che, se fosse andato in tribunale ad accusare il “cecato”, «non sarebbe sopravvissuto una settimana». Infine, quando il carabiniere insisteva chiedendo se avesse ricevuto minacce dirette o indirette da Carminati, Grilli chiariva: «Ma non serve, so di cosa stiamo parlando. Il mio profilo basso tenuto fino adesso a Roma mi ha garantito di stare in vita, dopo la mia testimonianza non lo sarei più».
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Leonardo Sciascia diceva che l’idea di scrivere “il giorno della civetta” gli venne dopo aver assistito ad un dibattito alla Camera su un fatto di cronaca legato alla mafia. E raccontava quel che della mafia poteva conoscere un siciliano: «I capi non solo non cercavano di nascondersi, ma persino si esibivano. Non pronunciavano e non accettavano la parola mafia, amavano sostituirla con la parola amicizia. E facevano sfoggio di una filosofia pessimistica e scettica nei riguardi dei loro simili, della società, delle istituzioni. Le istituzioni, da parte loro, negavano l’esistenza in Sicilia di una vasta ed efficiente associazione per delinquere denominata mafia: e con argomenti non dissimili di quelli di Luigi Capuana quando, contro l’inchiesta Franchetti-Sonnino (due deputati nazionali che presentarono in Parlamento una relazione destinata a passare alla storia. È la prima indagine documentata sulle condizioni sociali ed economiche dell’Isola dopo l’Unità d’Italia, descrivendo la potenza della mafia e dei suoi collegamenti con la politica), scrisse “L’isola del sole”».

Le ferite provocate da Carminati con la forza di intimidazione, le infiltrazioni nella politica e nella pubblica amministrazione, nell’inquinamento dell’economia legale, sono ancora aperte, e i romani, ma soprattutto le vittime, lo ricordano e ne hanno ancora paura.